“In Tibet la situazione è gravissima”. Dialogo con Claudio Cardelli, l’uomo che ha portato il Dalai Lama in Italia

PangeaNews – 10 aprile 2018

Come stelle che implodono. Come urla fiammate. Ceri viventi. Si immolano. L’ultimo – per ciò che ne sappiamo, dacché oltre la cortina himalayana regna l’ambiguo – si chiama Tsekho. Un mese fa. Aveva moglie e figlie, due. Un patriota. Si è cosparso di benzina. Si è acceso. In Tibet la luce ha il sapore di tenebra, non scalda – agghiaccia. 152. I tibetani che dal 2009 si danno fuoco per dare un segno di luce – e di morte – alla loro protesta. Vogliono il Tibet libero. Si illuminano. Come ghigni di tigre contro il dragone cinese. Implacabile. Il gesto di Tsekho non è accaduto un giorno qualunque. Il 10 marzo si sono festeggiati i 59 anni dalla sollevazione di Lahsa contro l’occupazione cinese. A Ginevra, per l’occasione, si è radunato un corteo di 7mila persone. “Noi saremo sempre qui a difendere la sacra causa del Tibet e il futuro della nostra civiltà”, ha detto, per sigillare l’occasione, Claudio Cardelli. Dicono siano grandinati applausi.

Cardelli, riminese, illuminato fin da giovane, per spirito di avventura – più che di spiritualità – dall’Oriente, è da diversi mandati il Presidente dell’Associazione Italia-Tibet, che ha sede a Milano, quest’anno compie 30 anni, e tra i suoi compiti, da statuto, c’è quello “di far conoscere in Italia le violazioni dei fondamentali diritti umani attuate in Tibet, al fine di creare un movimento di opinione pubblica che possa contribuire al ristabilimento delle libertà democratiche nella società tibetana”. Di fatto, le notizie su quanto accade in Tibet, in Italia, le sappiamo da loro. Cardelli è un bel tipo. Alto, allampanato, barbuto, generosissimo, è, tra l’altro, la guida dei Rangzen, una delle tribute band dei Beatles – ma suonano anche i Rolling Stones, Bob Dylan, Jimi Hendrix, Led Zeppelin, David Bowie – più apprezzate d’Italia. Rangzen, in tibetano, significa ‘indipendenza’. A dire dell’interdipendenza intraprendente tra lo spirito musicale e quello ‘politico’ a salvaguardia del Tibet. Per capirci: Cardelli ha incontrato il Dalai Lama per la prima volta nel 1982, gli è stato dietro nel 1991, a Rimini e a San Marino (a questo evento si riferisce la fotografia in copertina), lo ha riportato nella sua città nel 1994 – in concomitanza con l’assegnazione della cittadinanza onoraria – poi nel 2005. Ad ogni visita del Dalai Lama in Italia – a Milano, ad esempio, nel 2016 – Cardelli e l’Associazione Italia-Tibet ci sono. In Italia, va detto, di Tibet si dice poco – tranne quando ne parla un Richard Gere – come se la Cina funzionasse da freno inibitore a una informazione che dovrebbe sempre essere ‘sfrenata’. Fermo Cardelli di ritorno dal Buthan, l’ennesimo luogo del mondo dove tutto non è come appare.

Sei appena tornato dal Buthan. Ragione del viaggio? Come si vive in Buthan, che atmosfera si respira?

Sono tornato dopo 25 anni perché ero molto curioso di vedere questo molto sbandierato F.I.L. ( Felicità interna lorda…) di cui il paese si fa gran vanto da tempo e che lo rende molto suggestivo e attraente a turisti e viaggiatori. Il Bhutan è l’ultima monarchia indipendente dell’Himalaya, con il buddhismo religione di stato, dopo che il Nepal si è trasformato da alcuni anni in repubblica con percorsi piuttosto articolati e non privi di pagine drammatiche (eccidio della famiglia reale… guerriglia maoista). Il Bhutan, stretto tra due giganti, India e Cina, cerca di mantenere relazioni equidistanti ma la pressione cinese è implacabile e non risparmia mezzi di persuasione, soprattutto economici, ma anche intimidatori, come periodici “sforamenti” di truppe di confine in territorio Bhutanese che in pratica vogliono dire: “entriamo e vi prendiamo quando e come vogliamo”. Nel frattempo finanziano totalmente e mandano anche tutte le maestranze per costruire un Buddha giagantesco (53 mt) tutto ricoperto d’oro e con intorno una sfilza di improbabili statue sempre dorate in un tripudio di piastrelle ancora dorate… Il ragazzo che ci accompagnava era molto orgoglioso e soddisfatto del regalo. Era anche disorientato assai sul mio racconto dei “Timeo Danaos et dona ferentes…”. Quando gli ho prospettato un po’ scherzando una prossima invasione cinese, mi ha subito risposto “ma noi abbiamo l’India che ci difende”. Non considerando, il ragazzo, che tra India e Cina sono in corso prove generali di disgelo che incombono ovviamente sulla testa dei deboli. Vedi Dalai Lama e comunità tibetana in India e lo stesso Bhutan assieme alle zone contese che gli stanno attorno e che la Cina reclama come sue (Arunachal Pradesh, Doklham corridor…).

Insomma, un piccolo Shangri-La ben costruito ma appeso ad un filo sottilissimo. Il paese è lindo, ordinato, attento all’ambiente e alla salute, banditi tabacco e alcool, strade a posto, servizi per tutti. Sorrisi, personale giovanissimo ovunque, hotel, ristoranti, negozi. Famiglia reale bella, illuminata e generosa che si mescola al popolo, dona terre, costruisce strutture sociali, mediche, scolastiche e campeggia su strade, edifici pubblici e privati, francobolli, banconote. Il calendario è ricco di eventi e festival religiosi molto suggestivi (come quello di Paro a cui ho assistito; 25 anni fa vidi quello di Thimpu e di Wangdi Phodrang) che sono uno dei principali elementi di attrattiva del paese. Purtroppo questi festival sono stati “arricchiti” di elementi spuri di folklore laico che servono ad allungare il brodo e deteriorano la purezza e la grande originalità dei Cham, le danze rituali del Tibet, che non dovrebbero ospitare canzoncine e balli popolari folkloristici. Ma il turismo, dopo l’energia elettrica, è la seconda voce nel bilancio del Bhutan e l’attenzione verso le migliaia di turisti, in particolare indiani, che si sfiancano su per i dirupi del Nido della Tigre o si mitragliano selfie durante i festival e nei monasteri, è enorme. Spero che Sua Maestà segue con molta attenzione tutta la faccenda e consideri che un brutto turismo può essere più rovinoso di un esercito…

Raccontaci, visto che hai fonte certe, come si vive, davvero, oggi in Tibet. Il fenomeno delle autoimmolazioni con il fuoco continua: perché?

Siamo tutti attoniti di fronte al periodico, implacabile e sconvolgente ripetersi di autoimmolazioni in Tibet. Non si ha la forza di reagire, né con le parole e neppure con delle azioni che possano in qualche modo darci una speranza che questo possa finire. Non è possibile che 160 persone, martiri, si brucino vive per raccontare e denunciare la situazione del Tibet nell’indifferenza del mondo. La Cina è riuscita a creare una cortina di omertoso silenzio e le sue minacce ai quattro venti ovunque si paventi una iniziativa a favore del Tibet, in primis una visita del Dalai Lama, stanno ottenendo risultati concreti.

E la psicosi “non si può irritare la Cina” è ormai endemica. Anche coloro che non sono direttamente oggetto di pressioni, minacce o ricatti, sentono forte questo diktat non sempre pervenuto ma aleggiante, che scoraggia ogni presa di posizione a favore del Paese delle Nevi, invaso e occupato dalla Cina dal 1950. Ancora oggi, dopo 59 anni, la situazione in Tibet rimane gravissima. I tibetani, ogni giorno, lottano per conservare la propria identità e la propria dignità contro la repressione e la violenza senza fine del regime coloniale cinese. Le notizie che ci giungono dall’interno del Tibet raccontano storie di distruzione dell’ambiente naturale, di soppressione della lingua e della cultura tibetana, di discriminazione e arresti arbitrari, di torture e condanne a morte senza processi. Mentre la macchina della conquista coloniale avanza senza esitazioni oliata dal silenzio del mondo e dalle infrastrutture che Pechino mette in piedi per favorire il flusso di coloni e il reflusso di materie prime. Ferrovia Lanzhou Shigatse in primis, 2400 km, che la Cina vuole a tutti i costi far passare sotto la catena himalayana per arrivare a Kathmandu. Con grande gioia di New Delhi la quale, durante il demenziale embargo dei carburanti contro il Nepal nel 2015, ha spalancato un varco gigantesco a Pechino che ora, l’ho toccato con mano, spadroneggia nella valle di Kathmandu e non solo e ha ben chiaro come vede il futuro da queste parti. Futuro di conquista. Tra l’altro l’agibilità dei profughi tibetani in Nepal, circa 40.000, è sempre più risicata. Il timore di essere rimpatriati forzatamente è palpabile. In queste ultime settimane in coincidenza dell’anniversario dell’insurrezione di Lhasa del 10 marzo 1959, Pechino ha puntualmente annunciato la chiusura del paese e l’espulsione di tutti gli stranieri presenti in Tibet, mentre a Ginevra lo stesso 10 marzo si è tenuta una manifestazione di oltre 7000 tibetani ed europei per sostenere le rivendicazioni del Popolo Tibetano. Manifestazioni analoghe in tutte le principali capitali del mondo non sono state comunque ritenute sufficienti per la grande stampa… Il web e i social ci salvano un po’.

Eppure. La ‘comunità internazionale’, come si dice, stringe rapporti di alleanza economica con la Cina, che prospera. Non ci sono voci che si levano contro ‘lìoccupazione’ del Tibet da parte del ‘drago’ cinese?

In passato nel mondo molte sono state le risoluzioni a favore del Tibet, anche nel Parlamento Europeo. Poco tempo fa però un mio amico a Strasburgo mi scrisse esattamente questo: “Abbiamo provato tante volte di avere una risoluzione sul Tibet ma la pressione cinese è micidiale, non riusciamo nemmeno a calendarizzare qualunque cosa che riguardi il Tibet la maggior parte dei gruppi si oppone…”. Sì, la pressione cinese è micidiale. Ricordo ancora con vividezza tattile quando nel 1991 mi trovai al Festival dei Teatri di Santarcangelo dove era stata fatta venire, con una certa ingenuità, una compagnia fantoccio dell’Opera Nazionale del Tibet di Lhasa. Incontrarono noi sulla loro strada e, risparmiandovi i dettagli pirotecnici, riuscimmo ad ottenere un convegno sul teatro tibetano con la presenza di esponenti della diaspora. La cosa fece infuriare i diplomatici cinesi in Italia che misero in croce il povero sindaco di allora, Cristina Garattoni, e pretesero l’arrivo della celere di Senigallia in tenuta anti sommossa per “proteggere gli artisti” (delle povere vittime ovviamente…) dall’assalto dei facinorosi membri dell’Associazione Italia-Tibet. In quel frangente, con una certa incosciente abilità me lo riconosco, riuscii a mettere uno davanti all’altro il rappresentante del Dalai Lama Sig. Gyaltsen Gyaltag (una delle persone più straordinarie che abbia incontrato sul mio cammino tibetano) e il console cinese a Milano. Quest’ultimo, appena si rese conto di chi avesse di fronte, fece un balzo all’indietro e iniziò, digrignando i denti, una sequela di insulti e calunnie ripetendo ossessivamente tutta la tradizionale versione cinese sul Tibet schiavista, feudale, arretrato, teocratico, di fronte ad un esterrefatto Gyaltag che continuava a mormorare basito “but it’s not true… not true…”. Il console se ne andò urlando e minacciandomi per avere portato a Santarcangelo un esponente della “cricca” del Dalai Lama. Confesso che mi venne da ridere. Però da allora nulla mi convincerà che i cinesi siano disposti a rivedere la loro posizione sul Tibet. Il Tibet ha sempre fatto parte della Cina ed è stato “liberato” dalle truppe di Mao e la Cina ha portato libertà, benessere e riforme. Infatti stanno così bene che 160 tibetani si sono bruciati vivi per protesta contro il regime che li opprime. Sul fronte Cina e resto del mondo vedo invece segnali interessanti di chi (ben alzati…) si sta rendendo conto che le grandi regalie cinesi in giro per il mondo non sono altro che novelli Cavalli di Troia per impossessarsi di risorse, siti strategici, media e cervelli servili ( il lavoro degli Istituti Confucio in questo senso è esemplare). Il mega progetto di interconnessione Indo Pacific OBOR (One Belt One Road) sta suscitando molte perplessità e qualcuno (ben alzato di nuovo) si è accorto che c’è un grosso rischio che molte nazioni possano perdere la loro sovranità se non in grado di ripianare i debiti contratti con Pechino per far parte del megaprogetto. Altro che generosi… basta leggere qui per capire.

Il Dalai Lama come reagisce al controllo cinese? 

Il Dalai Lama da decenni afferma di avere rinunciato all’idea di un Tibet indipendente e si è sfiatato nel chiedere una genuina autonomia del Tibet all’interno della PRC. Questa istanza, chiamata Middle Way Approach, è stata presentata a Pechino in tutte le modalità possibili incluso l’invio di delegazioni che per oltre 10 anni sono state in Cina a tentare inutilmente un dialogo con le istituzioni di Pechino. Hanno trovato un muro; e neanche di gomma. Inoltre il Dalai Lama nel 2011 ha lasciato la sua carica politica e l’ha delegata al Primo Ministro del Governo Tibetano in Esilio (denominazione attuale “President of Central Tibetan Administration”) Avv. Lobsang Sangay. È inutile dire che nessun primo ministro, per quanto carismatico, può sostituire il Dalai Lama come leader spirituale e politico, nel cuore dei tibetani e anche nell’immaginario collettivo al di fuori del Tibet e della diaspora tibetana. Il Dalai Lama è il Tibet, e questo i cinesi lo sanno benissimo al punto che già da tempo blaterano che il prossimo Dalai Lama lo nomineranno loro secondo la tradizione (?) come hanno già fatto con il Panchen Lama nel 1994 sequestrando e facendo sparire assieme alla famiglia il bambino riconosciuto, come da prassi, dal Dalai Lama stesso. Tutti giochetti a cui loro oggi si prestano volentieri. Direi ci sguazzano. Interessante notare che il Partito Comunista Cinese, dopo aver bandito per decenni come superstizioni feudali le antiche pratiche di riconoscimento dei “Tulku” del Tibet (i “reincarnati”, tra cui lo stesso Dalai Lama) oggi si è scoperto qualità esoteriche, interpreta i sogni, trova messaggi segreti attraverso cui indirizzare le ricerche per i nuovi incarnati grati al Partito. La religione dunque non è più un veleno. Soprattutto se serve allo scopo di controllare una popolazione. È di pochi giorni fa un comunicato del regime di Pechino che recita “Religions in China should serve Communist Party, says got white paper”. Se il tutto non fosse tragico sarebbe veramente una rappresentazione di una comicità irresistibile.

L’Italia ha un rapporto particolare con il capo religioso del Tibet: Fano lo ha omaggiato con la cittadinanza onoraria e l’Università di Urbino con il Sigillo, sua massima onorificenza. So che stai tentando di ri-portare il Dalai Lama in Italia: quali sono le difficoltà?

Si è vero; l’Italia è uno dei paesi in Europa che ha più feeling con il Dalai Lama e con la questione tibetana in generale. Tra l’altro voglio ricordare che Rimini è stata la prima città italiana a dare la cittadinanza onoraria al Dalai Lama nel 1994, seguita da oltre venti città tra cui le più importanti, Roma, Firenze, Milano, Torino, Palermo etc, ed ha ricevuto ben tre visite di Sua Santità, due a Pennabilli e a San Marino e una a San Leo. Insomma un territorio succursale morale del Tibet anche per ragioni storiche legate alle missioni dei Cappuccini a Lhasa nel XVIII secolo capeggiate dal pennese Orazio Olivieri della Penna. Di queste missioni, che furono fondamentali per la diffusione della conoscenza del Tibet in occidente, facevano parte anche due cappuccini di Fano, Domenico e Giovanni da Fano, e che in virtù della cui storia la città di Fano ha ritenuto di conferire al Dalai Lama la cittadinanza onoraria e invitarlo, assieme alla Università di Urbino, che lo ha insignito della massima onorificenza, il Sigillo, per una visita nel mese di settembre. Ora il Dalai Lama ha 82 anni ed ha diradato moltissimo i suoi movimenti in giro per il mondo. A Ginevra il 10 marzo il sindaco di Fano è venuto per consegnare personalmente l’invito al rappresentante del Dalai Lama. Una iniziativa molto apprezzata ma ancora non abbiamo una risposta formale per cui incrocio le dita e attendo “hoping for the best but ready to the worst”.

Qual è lo scopo precipuo dell’Associazione Italia-Tibet, che presiedi? Cosa fate per aiutare il popolo tibetano in esilio?

L’Associazione Italia Tibet compie 30 anni in questi giorni. Il nostro statuto recita che “l’Associazione si propone di sostenere il lavoro del Dalai Lama, il diritto dei tibetano all’autodeterminazione e riconosce il Governo Tibetano in esilio come legittimo rappresentante del Popolo Tibetano”. A fronte di questo il nostro lavoro si svolge su tre fronti. Quello umanitario, con l’implementazione di progetti scolastici, sanitari, di adozioni a distanza; quello politico, con attività di lobbying su parlamentari, sindaci, enti locali; quello culturale, con la preparazioni di eventi, convegni, cicli di proiezioni, concerti. Insomma tutto quello che può servire a diffondere la conoscenza del mondo Tibetano e sensibilizzare l’attenzione dell’opinione pubblica alla questione Tibetana che, non mi stanco mai di ripeterlo, non è una faccenda esotica, suggestiva o balzana, ma il paradigma di quanto Pechino è e sarà capace di fare anche a casa nostra. Non svegliamoci troppo tardi. Anche se è già tardi. In appendice vorrei comunicare che in occasione del 30mo anniversario di Italia- Tibet e dell’assemblea per il rinnovo delle cariche che si svolgerà a Rimini il 5 e 6 maggio, abbiamo organizzato presso la Cineteca Comunale in Via Gambalunga due incontri. Uno il 18 aprile alle 17 e 30 con il Ven. Khen Rimpoche abate del Collegio Tantrico del Gyuto, e il 5 maggio alle 15,30 un convegno sulla situazione attuale del Tibet con il rappresentante del Dalai Lama Sig Ngodup Dorje, il Ven Thubten Wangchen, parlamentare tibetano e Presidente della Casa del Tibet di Barcellona, assieme ai tre presidenti di Italia Tibet Piero Verni, Gunther Cologna e il sottoscritto. Siete tutti invitati.