L’influenza Manciù

 

Il VI Dalai Lama fu una personalità eccentrica e il suo comportamento inusuale venne purtroppo usato come pretesto per l’intervento di forze e potenze straniere negli affari interni del “Tetto del Mondo”. In quegli stessi anni la Cina, il potente Impero di Mezzo, era teatro di profondi cambiamenti politici che avrebbero avuto nefaste ripercussioni per la storia tibetana dei secoli a venire. I Manciù (Ch’ing in mandarino), una popolazione nord-asiatica di origine extracinese, avevano preso il sopravvento e si erano insediati a Pechino e dalla capitale del Celeste Impero gettavano sguardi interessati verso gli stati confinanti, primo fra tutti il grande ed indifeso “Paese delle Nevi”. 

Il secondo imperatore Ch’ing, non volendo esporsi di persona, spinse un feroce e spregiudicato capo mongolo di nome Lhazang Khan ad entrare in Tibet. Il governo legittimo di Lhasa fu deposto con l’accusa di non essere in grado di mettere in riga il giovane e scapestrato Gyalwa Rinpoche e per di più di essere anche succube degli uomini di fiducia del precedente Dalai Lama. In modo particolare si accanirono contro Desi Sangye Gyatso che venne ucciso mentre tutti i ministri furono messi in prigione e lo stesso VI Dalai Lama posto agli arresti domiciliari.
Lhazang Khan offrì il Tibet in dono all’imperatore manciù che ricambiò il favore nominando il mongolo governatore del “Tetto del Mondo”. Dopo essere stato catturato, il VI Dalai Lama fu inviato in Cina dove però non giunse mai. Morì infatti durante il viaggio in circostanze misteriose e mai del tutto chiarite anche se i tibetani ritennero che il loro 
Oceano di Saggezza fosse perito per mano di un sicario di Lhazang Khan. La tragica scomparsa del VI Dalai Lama e il brutale dominio del capo mongolo feriscono profondamente il popolo tibetano; violenze e atrocità di ogni genere vengono consumate in ogni angolo del “Paese delle Nevi” e, cosa ancora peggiore, la spregiudicata invasione di Lhazang Khan suscita gli appetiti di un’altra tribù mongola, quella degli Zungari, che in precedenza avevano stabilito relazioni ed alleanze con Desi Sangye Gyatso. Approfittando del risentimento che i tibetani provavano verso Lhazang Khan, il quale tra l’altro aveva tentato di imporre un suo protetto come il “vero” VI Dalai Lama, gli Zungari invasero a loro volta il Tibet e nel 1717 conquistarono Lhasa e uccisero Lhazang Khan. Quanti avevano salutato con piacere la caduta dell’inviso despota straniero dovettero immediatamente ricredersi. Infatti i nuovi arrivati si dimostrarono ben presto un rimedio peggiore del male. Inebriati dalla vittoria si abbandonarono ad eccessi di ogni genere. Bruciarono monasteri, violentarono donne, uccisero gli uomini. Il martoriato Paese delle Nevi guardava attonito, disperato e impotente dissolversi tutto quello che l’abilità del V Dalai Lama aveva costruito. Inerme, non poteva che piegarsi alla spietata logica della violenza.

Di tutto questo caos ne approfittò Kang Hsi, l’imperatore manciù, che inviò in Tibet un esercito potente e ben addestrato a combattere gli Zungari e scortare a Lhasa Kalsang Gyatso, il VII Dalai Lama, che era stato riconosciuto e viveva nel monastero di Kumbun, nella regione nord-orientale dell’Amdo. Sia perché il suo intervento poneva fine al sanguinario potere degli Zungari, sia perché rendeva possibile il ritorno del Dalai Lama, l’arrivo dell’esercito cinese fu salutato con gioia sul Tetto del Mondo. Ancora una volta però, i tibetani dovettero accorgersi che in politica nessun aiuto è disinteressato. Infatti nel 1720 la settima incarnazione della Presenza si insediò sul Trono del Leone, ma in cambio l’imperatore pretese che il Tibet divenisse una sorta di protettorato mancese. Due suoi rappresentanti, gli Amban, si stabilirono a Lhasa e una guarnigione han forte di duemila uomini rimase nella capitale tibetana. Compito degli Amban era quello di curare gli interessi di Pechino in Tibet.

Molti degli equivoci che concernono l’effettivo status del Paese delle Nevi nascono in quegli anni. La domanda è la seguente: si può considerare il Tibet, a partire dal 1720 parte integrante dell’Impero di Mezzo? La risposta dovrebbe essere negativa. E vediamo perché. E’ fuor di dubbio che i tibetani furono costretti ad accettare la soluzione “imperiale” come il minore dei mali e formalmente non contestarono subito la pretesa di Kang Hsi di annettere il Tibet. Nel concreto però continuarono a comportarsi come se nulla fosse avvenuto confidando nel fatto che un effettivo e prolungato controllo della loro nazione sarebbe stato impossibile per i manciù. E infatti così andarono le cose. Una volta rientrato in Cina il grosso dell’esercito imperiale, il Tibet tornò ad essere governato dal Dalai Lama e dai suoi ministri mentre in pratica gli Amban si limitavano a svolgere le funzioni di normali ambasciatori.
Il VII e l’VIII Dalai Lama non esercitarono un grande ruolo politico ma preferirono dedicarsi alla vita spirituale e la conduzione degli affari dello stato venne affidata ad un Gabinetto (
Kashag), costituito da quattro ministri (Kalon) di cui tre erano laici ed uno monaco. Questo assetto legislativo rimarrà in vigore, più o meno inalterato, fino al 1959.

Tratto da “Il Tibet nel Cuore”, di P. Verni