Il Tibet occupato

 

Mentre Kundun trovava rifugio in India, la Cina portava a termine la repressione della resistenza tibetana e il volto del “nuovo” Tibet cominciava a prendere forma. Il 5 aprile 1959, accompagnato da una ingente scorta militare cinese, il Panchen Lama (5) fu fatto arrivare a Lhasa per esservi insediato come presidente del Comitato Autonomo della Regione Autonoma del Tibet, una organizzazione creata dai cinesi per dare l’impressione che i tibetani contassero ancora qualcosa nel loro Paese mentre in realtà ogni potere si trovava ormai nelle mani dei generali di Pechino. In pratica il Tibet venne smembrato e le sole regioni centrali di U-Tsang formarono la Regione Autonoma Tibetana (creata ufficialmente nel 1965) dal momento che il Kham e l’Amdo divennero parte delle province cinesi del Chingai, dello Sichuan, del Gansu e dello Yunnan. Così smembrato e ridotto ad un’area abitata da non più di due milioni di persone il Paese delle Nevi doveva essere, nelle aspettative dei suoi nuovi padroni, pronto per la normalizzazione e l’edificazione di una società socialista. Il forcipe che avrebbe dovuto facilitare questo non facile parto fu individuato dalle autorità cinesi nelle cosiddette “Tre educazioni” (alla coscienza di classe, al cambiamento socialista ed alla scienza e alla tecnica) e nelle “Quattro Pulizie” (del pensiero, della storia, della politica e della economia) che consistevano in una martellante campagna politica e poliziesca destinata a “ripulire” il Tetto del Mondo dai “reazionari, dalle armi illegali e dai nemici del popolo”. L’intera società tibetana venne divisa in sei classi secondo i rigidi schemi dell’ortodossia maoista. Da un giorno all’altro gli abitanti del Tibet scoprirono di essere “feudatari”, “agenti dei feudatari”, “ricchi”, “classe media”, “poveri” e “reazionari”. Le classi “media” e “povera” vennero considerate quelle da privilegiare mentre le altre subirono un vero e proprio martirio. Ben presto però i cinesi si accorsero che anche la grande maggioranza degli appartenenti alle classi “media” e “povera” non ne volevano sapere del governo di Pechino e quindi molti tibetani “medi” e “poveri” traslocarono nella più scomoda di tutte le classi, quella dei “reazionari ”.

Ben presto i generali cinesi si resero conto che oltre il 90% dei tibetani era ancora fedele al Dalai Lama e decisero quindi che per rendere la popolazione più disponibile ad accettare le “Riforme Democratiche” erano necessarie delle “sessioni di lotta ” collettive, i famigerati thamzing, dei veri e propri linciaggi pubblici degli elementi “controrivoluzionari ” a cui tutti dovevano partecipare attivamente. Chi non lo faceva, o non lo faceva con il necessario entusiasmo, rischiava di passare immediatamente dal ruolo di accusatore in quello di accusato. Oltre a queste “sessioni di lotta ”, per convincere il popolo tibetano a rispettare l’autorità di Pechino e a rompere con la “vecchia ” cultura, vennero chiusi o distrutti i monasteri e i monaci dispersi, fu proibita e perseguitata ogni manifestazione (sia pubblica sia privata) di fede religiosa, anche le più innocue espressioni di dissenso vennero represse e i dissidenti rinchiusi nei numerosi campi di lavoro forzato aperti in tutto il Paese. A questo scenario, di per sé tragico, si aggiunse lo spettro della fame e della carestia che tra il 1958 e il 1962 devastò la Repubblica Popolare Cinese come conseguenza del “Grande Balzo in Avanti” voluto da Mao per riconquistare il pieno controllo del Partito Comunista. Di fronte a questo drammatico stato di cose il Panchen Lama, che era rimasto in Tibet nella speranza di poter svolgere un ruolo di mediazione tra il suo popolo e le autorità cinesi, scrisse a Mao una lunga lettera in cui criticava severamente l’operato cinese in Tibet e chiedeva un immediato cambiamento di rotta. La risposta di Pechino non si fece attendere. Il Panchen Lama fu immediatamente arrestato, processato e sottoposto a thamzing insieme al suo tutore e ai suoi più stretti collaboratori. Nessuna umiliazione venne risparmiata al Panchen Lama che dopo il processo sparì nelle carceri cinesi da cui poté riemergere solo nel 1978. A completare l’opera di annientamento della cultura tibetana arrivò nel 1967 la Rivoluzione Culturale con il suo tragico corollario di violenze, distruzioni e deliri. Gruppi di giovani fanatici ed esaltati sciamarono sul Tetto del Mondo attaccando e fracassando ogni simbolo della “vecchia ” cultura del Tibet. Di quasi seimila monasteri e tempi se ne salvarono solamente tredici, tra cui il Potala a Lhasa, il Kum Bum a Gyantse, il monastero di Tashilumpo. Accecate da un furore iconoclasta allucinato e allucinante le Guardie Rosse distrussero statue, dipinti, affreschi, edifici antichi di centinaia e a volte migliaia di anni producendo una ferita irreparabile alla civiltà tibetana. Ovviamente la furia dei giovani maoisti non si limitò alle cose ma prese di mira anche le persone e i tibetani passarono attraverso un inferno difficile a descrivere con le parole. 

Nella seconda metà degli anni ’70, con la scomparsa di Mao e l’ascesa al potere di Deng Tsiao Ping, molte cose cambiarono nella Cina Popolare e il nuovo corso denghista comportò anche un diverso atteggiamento riguardo al Tibet. Il sistema di rigida collettivizzazione e delle comuni venne definitivamente smantellato. Alcuni monasteri furono parzialmente riaperti e qualche monaco poté essere nuovamente ordinato dai quei pochi che erano sopravvissuti ed alcune celebrazioni religiose ripresero ad essere tollerate. Nel 1980 Hu Yao Bang, allora segretario generale del Partito Comunista Cinese, visitò il Tibet ed essendo rimasto sconvolto da quello che aveva visto promise ai tibetani un rapido cambiamento della situazione. Contatti informali si stabilirono con il Dalai Lama che tra il 1979 e il 1982 poté inviare in Tibet alcune sue delegazioni. Quello che i rappresentanti di Dharamsala trovarono fu un Paese umiliato, sconvolto, ferito. Ma se quasi ogni traccia visibile dell’antica civiltà tibetana era stata spazzata via dalla furia iconoclasta di oltre un decennio di Rivoluzione Culturale, il ricordo del vecchio Tibet indipendente era ancora ben vivo nei cuori del popolo tibetano che accolse i delegati del Dalai Lama con un entusiasmo che non piacque alle autorità cinesi le quali nel 1982 dichiararono chiusa la breve stagione delle delegazioni.

Note: (5) Il Panchen Lama è considerato la seconda autorità spirituale del Tibet; prima dell’invasione cinese risiedeva nel suo monastero di Tashilumpo, vicino alla città di Shigatse.

Tratto da “Il Tibet nel Cuore”, di P. Verni