Violazione dei diritti delle donne

I diritti fondamentali delle donne tibetane continuano ad essere violati dal punto di vista politico, culturale, economico, sociale nonché da quello dell’integrità fisica.
Le donne tibetane, spesso monache, continuano ad essere arrestate arbitrariamente per aver esercitato il loro diritto alla libertà di opinione ed espressione e, in carcere, sono soggette a maltrattamenti e torture. Spesso sono anche costrette a subire contro la loro volontà la pratica della sterilizzazione forzata o pratiche di contraccezione o aborto forzati.

La Cina, nel 1980, ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite per l’Eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione contro le Donne.

La legislazione nazionale cinese nonché gli obblighi assunti a livello internazionale non sono comunque serviti a difendere i diritti delle donne tibetane in Tibet. In realtà il governo cinese prosegue nella sua premeditata e sistematica politica di discriminazione e violenza contro le donne tibetane.



LE DONNE DETENUTE
Le donne tibetane hanno sempre avuto un ruolo attivo nel sostegno e la difesa dei diritti umani e della libertà. Sin dall’occupazione del Tibet nel 1959, le donne e in particolare le monache sono state a capo di pacifiche dimostrazioni che chiedevano la fine della repressione cinese.

Il 26% dei prigionieri politici detenuti nelle prigioni cinesi in tutto il Tibet sono donne. Al dicembre 1999 si aveva notizia di 615 prigionieri politici di cui 162 donne. L’80% delle donne detenute sono monache.

Le condizioni delle donne in prigione sono di gran lunga al di sotto di quelle che possono essere definite condizioni umane di detenzione secondo gli standard internazionali. Alle donne non vengono forniti assorbenti igienici per le mestruazioni e la situazione è ulteriormente aggravata dal fatto che non è consentito lavarsi per lunghi periodi. Sono inoltre sottoposte a lavori forzati, esercitazioni obbligatorie ed altre crudeli forme di tortura sia fisica che psichica.

Le donne tibetane, per nulla scoraggiate dalle brutali torture, hanno continuato ad inscenare proteste contro le autorità cinesi anche durante la detenzione. Il 1 maggio (Festa del Lavoro) ed il 4 maggio (Giornata della Gioventù) 1998, i prigionieri della prigione di Drapchi hanno inscenato una protesta al momento della cerimonia dell’alzabandiera. I dimostranti furono immediatamente circondati dalle forze della Polizia Popolare Armata e furono tutti picchiati senza fare distinzioni, comprese le monache che avevano partecipato alla protesta. La cerimonia venne interrotta e tutte le monache del 3° blocco, circa 100 in totale, subirono gravi ferite e molte sanguinavano. Le autorità rinchiusero in cella di isolamento 20 monache prese a caso, a tre di loro fu prolungata la condanna mentre altre rimasero in isolamento per sette mesi.

Ngawang Sangdrol, rilasciata nell’ottobre 2002, fu arrestata per la prima volta nel 1987, all’età di 10 anni e trattenuta per 15 giorni per aver partecipato ad una dimostrazione. In seguito fu nuovamente arrestata il 28 agosto 1990 all’età di 13 anni e trattenuta agli arresti per 9 mesi. Prima del suo rilascio, stava scontando una condanna che risaliva al 17 giungo 1992, giorno in cui fu arrestata per aver tentato di inscenare a Lhasa una protesta a favore dell’indipendenza. La sua condanna era stata successivamente prolungata tre volte: nel giugno 1993, nel giugno 1996 e nell’ottobre 1998 a seguito della protesta nel carcere di Drapchi del maggio 1998. Ngawang Sangdrol era stata individuata e sottoposta a trattamenti particolarmente duri e spesso rinchiusa in isolamento. Le sue condizioni di salute sono estremamente fragili.



IL BRUTALE TRATTAMENTO DELLE DONNE
Il Tibet Information Network (TIN), un’ agenzia di informazione indipendente ha verificato il trattamento dei Tibetani nelle prigioni cinesi ed ha rilevato che “Il tasso di mortalità dei tibetani durante la reclusione o, come conseguenza della detenzione, poco dopo il loro rilascio, è in aumento. I prigionieri politici di sesso femminile e in particolare le detenute nella prigione di Drapchi a Lhasa, sono quelle esposte al maggior rischio. Il tasso di mortalità è pari al 5% circa o di 1 a 20.”

Choeying Kunsang, arrivata dal Tibet nell’aprile 2000, descrisse dettagliatamente la protesta nel carcere di Drapchi del maggio 1998. La sua testimonianza è corredata da descrizioni molto vivide di percosse, violenze sessuali, periodi di isolamento anche di sette mesi, sessioni di “allenamento” ed episodi di torture che hanno condotto alla morte il prigioniero.

La sua testimonianza include anche informazioni riguardo ai casi di abusi sessuali sulle donne nella prigione di Drapchi; informazioni analoghe sono contenute in testimonianze e nella documentazione raccolta in un lungo arco di tempo. Secondo queste testimonianze, alcuni fra i metodi impiegati comprendono il denudare le donne, colpirle con scosse elettriche ad alto voltaggio applicando cavi elettrici ai capezzoli e agli organi sessuali e lo stupro. Gli ufficiali cinesi utilizzano anche un pungolo elettrico per bovini che applicano a mani e piedi o che inseriscono nella bocca, nei genitali o nell’ano della prigioniera.



I CASI DI MORTE IN SEGUITO A TORTURE
Alla recente riunione del Comitato sulla Tortura del 4 maggio 2000, il rappresentante cinese Quio Zong Zhun, nella sua dichiarazione ha affermato che “Le autorità cinesi rispettano ed ottemperano alle disposizioni della Convenzione”. Ha anche affermato che le autorità cinesi stanno facendo del loro meglio nella prevenzione della tortura e degli altri trattamenti disumani e degradanti per i prigionieri.

Nonostante queste dichiarazione, i prigionieri politici Tibetani continuano ad essere sottoposti in carcere a torture e trattamenti disumani. I resoconti che riportiamo dimostrano come i prigionieri politici Tibetani ed in particolare le donne continuino a subire torture per mano dei funzionari delle prigioni cinesi, torture che spesso hanno portato alla morte dei detenuti.

Dekyi Yangzom (Drupkyi Pema) era una monaca di 21 anni del monastero di Nyemo Dowa Choten. Nel Febbraio 1995, fu arrestata e condannata a quattro anni di prigione per aver partecipato a una manifestazione a Lhasa a favore dell’indipendenza. Yangzom subì gravi percosse una settimana dopo aver partecipato alla protesta del maggio 1998 nel carcere di Drapchi. Le autorità l’anno picchiata e colpita con un pungolo elettrico sul petto, le guance e nei genitali, riempiendola di lividi ovunque. Poteva a stento parlare. Nonostante questo, il giorno dopo, insieme agli altri prigionieri, dovette restare in piedi al sole dalle sette del mattino fino alle otto di sera. Yangzom, così come altri prigionieri, doveva tenere un foglio di giornale fra le ginocchia e sotto le ascelle e tenere in equilibrio una ciotola piena d’acqua sulla testa. Molti di loro svennero ma a nessuno era consentito prestare aiuto agli altri. Il 13 maggio 1998 risultò assente così come altre monache. Successivamente fu dichiarata morta e le autorità cinesi dichiararono che la causa della morte era il suicidio, anche se direttamente collegabile alle torture. Fatti simili sono accaduti anche a Tashi Lhamo, Tsultrim Sangmo, Lobsang Wangmo e Kundol Yonten, morti a causa delle conseguenze delle brutali torture.


LA PERSECUZIONE DELLE MONACHE
Le monache tibetane hanno partecipato alla maggior parte delle dimostrazioni a favore dell’indipendenza e non ci sono mai state testimonianze che abbiano fatto ricorso alla violenza. Nonostante ciò, le monache sono sistematicamente arrestate e sottoposte a brutali torture per aver partecipato a manifestazioni pacifiche.
Spesso le autorità cinesi utilizzano le torture di tipo sessuale come strumento di punizione o per estorcere informazioni o anche semplicemente per umiliare e insultare le monache. Questo genere di aggressioni non sono solo una violenza nei loro confronti in quanto donne, ma anche specifiche violenze in quanto monache che hanno fatto voto di castità. Le monache, spesso, sono poi costrette a dover lasciare l’ordine per avere infranto i voti, anche se contro la loro volontà.

Nonostante questi crudeli e disumani trattamenti, le monache sono note per la loro coraggiosa ed audace resistenza alle torture nelle prigioni cinesi.

Nell’aprile 1996 la Cina ha lanciato la campagna “Colpisci Duro”, un programma di “rieducazione patriottica” avviata in tutte le istituzioni religiose del Tibet come tentativo di soffocare “le attività dei separatisti”. Monache e monaci furono messi sotto costante sorveglianza e furono inviati nei monasteri “gruppi di lavoro” per investigare sul dissenso e propagandare “l’educazione politica”. Le monache furono costrette a firmare un atto che condannava pubblicamente il Dalai Lama e il loro credo religioso e che confermava la versione cinese della storia del Tibet. Coloro i quali si rifiutarono di obbedire furono arrestati oppure espulsi dai monasteri. Molte monache lasciarono volontariamente i loro conventi piuttosto che partecipare a queste sessioni di “rieducazione patriottica”.

Una volta espulse o detenute per ragioni politiche, alle monache è vietato ritornare nei loro monasteri o entrare a far parte di altre istituzioni religiose.



IL DIVIETO DELLA PRATICA RELIGIOSA
A causa della repressione della libertà religiosa in Tibet, le monache continuano a subire molestie e vessazioni nelle forme più varie. Nella prima metà del 2000, ci risulta che gli arresti delle monache siano continuati. Le espulsioni dalle istituzioni religiose sono ancora molto comuni e la continua presenza dei “gruppi di lavoro” nei monasteri indica che molte monache sono ancora sottoposte a molestie. Il numero delle monache si è ridotto anche in seguito alla chiusura di molti monasteri.

Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti nel Rapporto Annuale sui Diritti Umani 1999, pubblicato nel febbraio 2000, rileva che “I Buddisti Tibetani …. sono sottoposti ad una crescente pressione a causa del giro di vite del governo riguardo al dissenso ed alle attività separatiste.” Il Rapporto Annuale afferma che il governo cinese “ha ampliato e intensificato le sue continue “campagne per l’educazione patriottica” che mirano a controllare i monasteri e ad espellere i sostenitori del Dalai Lama.”

Secondo il rapporto del Dipartimento di Stato, questi programmi obbligatori di “rieducazione patriottica” consistono nel contrastare i separatisti, obbligandoli a firmare atti di denuncia nei confronti del Dalai Lama e del Panchen Lama riconosciuto dal Dalai Lama e nel mettere al bando le immagini di entrambi. Inoltre includono il riconoscimento dell’unità con la madrepatria ed il rifiuto dell’indipendenza del Tibet. Queste campagne di “rieducazione” spesso durano alcuni mesi e le monache che non osservano il programma di educazione sono espulse.



IL CONTROLLO OBBLIGATORIO DELLE NASCITE
Le politiche cinesi di trasferimento della popolazione e controllo delle nascite sono state descritte come tentativi di genocidio volti a sterminare il popolo Tibetano. Queste politiche, volute dallo stato, si sono tradotte in una sistematica e premeditata politica di discriminazione e violenza nei confronti delle donne tibetane.

“Gli agricoltori ed i pastori tibetani nella Regione Autonoma del Tibet (TAR) possono avere quanti figli desiderano.” (Politiche Nazionali per le Minoranze ed applicazioni in Cina, settembre 1999).

Nonostante i diritti in materia di riproduzione siano garantiti alle donne tibetane sia dalle leggi nazionali che internazionali, il governo cinese sta’ applicando una politica discriminatoria ed illegale che mira a ridurre la popolazione tibetana.

“E’ necessario procedere con forza alla sterilizzazione di quelle coppie che non si siano sottoposte alla sterilizzazione o all’uso di contraccettivi.” (Fonte: Politics and Law Tribune – pp. 89-93 – Pechino, aprile 1993).

Il Dott. Blake Kerr, nel suo discorso del 1993 “Donne e gioventù in Tibet: i problemi aperti” affermò che negli ospedali di Lhasa gli interventi di aborto venivano effettuati fino al nono mese di gravidanza per mezzo di iniezioni di “levanor”, un farmaco sconosciuto nel mondo occidentale. Ha confermato che l’infanticidio veniva praticato negli ospedali come strumento per tenere sotto controllo il tasso di crescita della popolazione. Il Dott. Kerr ha scoperto che i regolamenti per il controllo delle nascite in Tibet sono dettati da una “politica di genocidio”.

La pianificazione familiare in Tibet rimane una priorità sull’agenda del governo cinese. Nella prima metà del 2000, numerose testimonianze riportano che viene ancora applicata la politica di due figli per ogni coppia di tibetani. Il governo cinese ha continuamente tentato di nascondere queste violazioni dietro cifre importanti e dietro i vari programmi sanitari messi a disposizione delle donne.

Sono state imposte delle quote per ridurre il numero di figli e le famiglie che superano la quota assegnata devono affrontare la discriminazione e grosse multe. Un bambino o una bambina nati “fuori quota” sono generalmente trattati come una “non-persona”, non saranno registrati all’anagrafe e di conseguenza nel corso della loro vita si vedranno negati tutti i più elementari diritti quali cibo, tessere annonarie, istruzione o il diritto ad ottenere della terra.

Se una donna rimane incinta dopo aver raggiunto la quota assegnata, è costretta ad abortire. Se si rifiuta di abortire, viene sottoposta a sterilizzazione subito dopo la nascita del bambino.

Gli aborti o le procedure contraccettive cui sono sottoposte le donne tibetane sono spesso pericolose. Generalmente avvengono in strutture arrangiate alla meglio, senza alcuna assistenza medica né medicazioni successive all’intervento. Tale negligenza ha provocato molti casi di decessi postoperatori. Le operazioni generalmente comportano la sterilizzazione definitiva o la somministrazione di un contraccettivo a lungo termine. La più comune forma di contraccezione è l’applicazione della spirale (IUD – Intra Uterin Device) o una iniezione che dura circa tre anni oppure ancora il “Norplant” che viene innestato nel braccio e rilascia ormoni che impediscono la gravidanza. La paura della sterilizzazione e la mancanza di informazioni riguardo alla natura di questi innesti scoraggiano molte donne che non accettano nemmeno l’assistenza medica generale.

Khando Kyi, arrivata in India verso la fine del maggio 2000, rivestiva una carica ufficiale nel Dipartimento per la Pianificazione Familiare della città di Akham. I suoi compiti includevano le politiche relative alla procreazione consapevole ed il controllo delle nascite. Khando ha riferito molti dettagli riguardo alle multe comminate alle famiglie che avevano superato il numero massimo permesso di figli. Ad esempio, se il limite imposto ad agricoltori e nomadi era di tre figli, coloro i quali superavano il limite dovevano pagare multe fino a 3.000 yuan. Venivano poi imposte delle multe anche a seconda del tempo trascorso fra la nascita di un figlio e l’altro: se il secondo bambino nasceva entro tre anni dalla nascita del primo, la famiglia veniva multata di 80 yuan.

A cura del Centro Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia – Novembre 2000