Dal mito ai sovrani di Yarlung

 

Le origini del popolo tibetano rimangono ancora oggi piuttosto misteriose. Secondo la tradizione mitologica i remoti antenati degli abitanti del Tibet sarebbero stati uno scimmione, considerato un’incarnazione della deità Chenrezig e una sorta di orchessa venerata come nume tutelare della montagna. La loro unione avrebbe dato vita ad una bizzarra prole, strani esseri metà uomini e metà scimmie da cui, attraverso un considerevole numero di generazioni, si evolse gradualmente la razza tibetana.

 Dimensione mitica a parte, la moderna antropologia colloca i tibetani all’interno di quella vasta famiglia etnica nota con il nome di ceppo mongolide che comprende diversi popoli dell’area centro asiatica. In effetti non è semplice determinare con certezza l’origine degli abitanti del Tibet. Anche partendo da angoli di visuale molto grossolani, ad esempio la banale osservazione fisica dei tratti somatici, vediamo come alcuni ricordino nell’aspetto dei mongoli mentre altri siano più simili ai nativi d’America (i cosiddetti “pellerossa”) e altri ancora possano ad uno sguardo superficiale sembrare parenti stretti di giapponesi o cinesi. Pur essendo di fronte a una tale varietà di tipologie si possono comunque stabilire alcuni punti fermi. Gli abitanti delle regioni centrali di U e Tsang, e in larga parte anche quelli del Tibet occidentale, sono di statura media, hanno la testa rotonda e gli zigomi pronunciati. Quelli che vivono nelle province orientali e settentrionali, Kham e Amdo, sono invece decisamente alti, dolicocefali e con gli arti piuttosto sviluppati. Tratti comuni a tutti sono capelli neri e lisci e occhi scuri dalla caratteristica forma “a mandorla”. Contrariamente all’elemento etnico, quello linguistico non ha alcuna parentela con il mondo mongolico. La lingua tibetana presenta piuttosto punti di contatto con il birmano, tanto che gli studiosi parlano di tibeto-birmano, e con alcuni dialetti della regione himalayana. Nel tibetano parlato si rintracciano anche alcune periferiche influenze di origine cinese ma le due lingue sono reciprocamente del tutto incomprensibili.

Così come quelle etniche, anche le origini storiche del Tibet sono ancora oggi poco conosciute. Le antiche tradizioni parlano di un’età mitica in cui governava una dinastia di re celesti, una sorta di dei che esercitavano la loro funzione regale sulla terra. Di giorno questi monarchi divini vivevano nel mondo degli uomini e di notte salivano magicamente in cielo tramite una corda che viene descritta come specie di arcobaleno. Questi re celesti, secondo le cronache tibetane, governavano fino a quando il loro primogenito imparava a cavalcare (in genere verso i tredici anni) ed nella maggiore età. L’ingresso del giovane nell’età adulta segnava il passaggio dei poteri dinastici e il vecchio re moriva, nel senso che tornava definitivamente in cielo per mezzo della corda magica.

Il primo di questi monarchi discesi sulla terra viene considerato Nyatri Tsempo che arrivato nella valle del fiume Yarlung (Tibet centrale), vi insediò la omonima dinastia. Pare che prima dell’arrivo del sovrano i tibetani non abitassero in edifici in muratura e vivessero per lo più in caverne e ripari naturali. Nyatri Tsempo fece compiere un passo decisivo all’evoluzione del popolo tibetano edificando il primo palazzo, quello Yumbulagang di cui si è appena parlato. Nyatri Tsempo e i suoi primi sei successori, salendo al cielo al momento della morte, non lasciavano spoglie mortale e quindi non c’era la necessità di costruire monumenti funerari. Fu solo a partire dall’ottavo re, Drigum Tsempo, che la corda magica, in grado di assicurare ai sovrani la soprannaturale ascensione, venne tagliata e i loro cadaveri, dal momento che rimanevano sulla terra, avevano bisogno di una tomba. Il monumento funerario di Drigum Tsempo, che i tibetani chiamano ancora “la prima tomba dei Re”, con la sua presenza visibile e concreta prova che questo sovrano esistette realmente e con lui le vicende del Tibet entrano, se non nella Storia almeno in una sorta di preistoria dove alcuni elementi certi e databili cominciano ad emergere dalle poetiche nebbie del mito.

Nella Storia vera e propria il Paese delle Nevi vi entra circa verso il settimo secolo d.C. e in questo periodo presenta i tratti di una società feudale, fortemente gerarchicizzata e posta sotto il governo di Songtsen Gampo (noto anche come Tride Songtsen) il trentaduesimo re di Yarlung. Songtsen Gampo riuscì nell’arduo compito di riunire sotto un unico comando quel variegato mondo di tribù dell’Asia centro-settentrionale che costituiscono l’elemento fondamentale dell’etnia tibetana. Al tempo di questo sovrano quindi, gran parte dell’odierno Tibet centrale è unificato e i suoi abitanti sono in grado di compiere audaci quanto fortunate scorribande militari all’interno dello stesso territorio cinese. Popolo di nomadi coraggiosi fino all’aggressività, dediti alla pastorizia e con scarsa propensione alla vita sedentaria, i tibetani dell’epoca con le loro incursioni seminano il panico tra le popolazioni han della Cina. Sotto Songtsen Gampo Lhasa, l’unico agglomerato urbano di un certo rilievo, diventa la capitale del Paese e spedizioni militari condotte verso nord e ovest annettono al Tibet porzioni significative dei territori limitrofi. Nel 635 il sovrano sposa la principessa nepalese Bhrikuti Devi (Belsa in tibetano) e nel 641 la figlia dell’imperatore cinese T’ai Tsung, la giovane Wen-c’eng Kung-chu (Gyasa in tibetano). La tradizione racconta che queste due giovani donne portarono in dote, tra altri innumerevoli tesori, anche alcune scritture e immagini sacre buddhiste che rappresentarono i primi elementi di Buddhismo ad essere introdotti nel Paese delle Nevi. Il dono più importante fu senza dubbio la statua di Buddha Sakyamuni che faceva parte della dote di Gyasa e che si dice fosse stata benedetta dallo stesso Buddha. Ancora oggi questa statua, che si trova a Lhasa all’interno della cattedrale del Jokang, è meta di un ininterrotto pellegrinaggio di fedeli. Anche se la religione professata dalle due principesse era quella buddhista non sembra però che il Buddhismo, al di là di alcune pratiche esteriori, fosse seriamente seguito; rimaneva una religione straniera fondamentalmente estranea sia al popolo sia agli stessi ambienti della corte. La vera tradizione spirituale del Tibet continuava ad essere il Bon, una sorta di religione della natura con venature sciamaniche, radicato tra la gente e molto influente tra i ranghi del governo e della nobiltà.

Tra gli innumerevoli meriti che vengono attribuiti a Songtsen Gampo il più significativo è senza dubbio la sua determinazione nel voler dotare la lingua tibetana (fino ad allora priva di segni grafici) di una sua peculiare scrittura. Sembra che l’esigenza di una grafia derivasse soprattutto dall’interesse per il Buddhismo che provava il sovrano il quale voleva che il suo popolo potesse leggere gli insegnamenti dell’Illuminato. Songtsen Gampo inviò dunque in India un folto gruppo di eruditi allo scopo di trovare una scrittura che potesse adattarsi alla lingua tibetana e far sì che anche il Paese delle Nevi avesse, come quasi tutti gli stati con cui confinava, la possibilità di tradurre in segni i suoni fonetici. Thonmi Sambota, lo studioso a cui il re aveva affidato il comando dell’impresa, tornò in Tibet solo dopo diversi anni portando con sé una sorta di alfabeto mutuato dalle scritture brahmi e gupta, analoghe al sanscrito, e molto diffuse in quel tempo nei regni dell’India centro-settentrionale e himalayana. L’adozione di una scrittura di derivazione indiana sottolinea con forza il legame culturale che, al di là delle differenze etniche, collega il Tibet all’India, legame che andrà sempre più rafforzandosi nei secoli successivi grazie alla vasta (e tutto sommato rapida) diffusione del Buddhismo nel mondo tibetano. Come hanno fatto rilevare numerosi autori, l’adozione di un tipo di scrittura rappresenta una precisa scelta di campo culturale che comporta profonde implicazioni le quali travalicano gli ambiti di una opzione puramente tecnica verso una particolare forma grafica per svilupparsi verso ben altri orizzonti. Creando una grafia così vicina al sanscrito il mondo tibetano compì, oltre mille anni or sono, un passo che lo allontanò irreversibilmente dall’area cinese cui lo legavano alcune remotissime ascendenze etniche, per entrare a pieno titolo nell’universo della koiné indiana.

Songtsen Gampo morì nel 649 e i suoi successori ampliarono ulteriormente i confini del regno che andava sempre più prefigurandosi come uno dei principali, e temuti, poteri dell’Asia centrale. Nel 755 salì al trono Trisong Deutsen che passerà alla storia come il più importante di tutti i sovrani della dinastia di Yarlung. Trisong Deutsen eredita un impero forte e solido la cui stabilità interna e potenza militare erano state rafforzate dai quattro monarchi che avevano regnato negli oltre cento anni che intercorrono tra la scomparsa di Songtsen Gampo e il 755. Deciso, audace, spregiudicato (almeno per quanto riguarda la politica estera), Trisong Deutsen organizza brevi ma efficaci spedizioni che arrivano a colpire e conquistare il cuore dell’impero cinese e costringono l’imperatore del Regno di Mezzo a firmare un umiliante trattato di pace. Trisong Deutsen però occupa un posto di particolare rilevanza nella storia del Tibet non tanto per le sue brillanti imprese belliche quanto perché a lui si deve l’effettiva introduzione sul Tetto del Mondo della religione buddhista che, nel volgere di una manciata di secoli, diverrà il principale collante spirituale e culturale dell’intera nazione. Sin da giovane Trisong Deutsen si mostrò estremamente incuriosto e interessato da quella dottrina che tanto successo aveva riscosso in India, Cina e in numerosi altri stati asiatici. Nonostante il parere negativo di molti suoi consiglieri decise di invitare in Tibet alcuni tra i più rinomati maestri buddhisti dell’epoca per diffondere, anche nel Paese delle Nevi, il messaggio del Buddha. Due furono le figure di maggior rilievo che dall’India giunsero in Tibet nell’ottavo secolo, Santarakshita e Padmasambhava. Il primo, un raffinato erudito dell’università indiana di Nalanda, introdusse l’ordinamento monastico mentre il secondo, grazie alla forza di un incredibile carisma personale, riuscì a superare le numerose resistenze che gli ambienti Bon opponevano alla diffusione della nuova fede. Sembra comunque che il confronto tra le due religioni sia avvenuto in modo piuttosto pacifico e il “campo di battaglia” fosse rappresentato sia da dibattiti filosofici sia dall’uso di quei “poteri miracolosi” così importanti per la psicologia tibetana. Durante il regno di Trisong Deutsen il Buddhismo mise salde radici in Tibet. I vecchi templi fatti costruire dalle mogli di Songtsen Gampo e lasciati andare in rovina dai suoi successori vennero restaurati. Fu edificato Samye, il primo monastero buddhista e, come si è già detto, Santarakshita ordinò alcuni monaci tibetani. Delle due scuole Buddhiste che si confrontarono in Tibet, quella “indiana” e quella “cinese” si affermò nettamente la prima. Varrà la pena di notare come anche questa scelta, sia pure relativa all’ambito religioso e motivata solo da ragioni spirituali, accentui ancor più i legami della cultura tibetana con l’India che può quindi considerarsi la vera ispiratrice della civiltà tibetana avendogli fornito scrittura e religione.

Trisong Deutsen muore nel 797 ma la sua politica viene continuata, anche se con minore efficacia, da due dei suoi quattro figli: Muni Tsenpo e Tride Songtsen. Nel 815 sale al trono Ralpachen, terzogenito di Tride Songtsen, che viene generalmente considerato il terzo grande sovrano della dinastia di Yarlung. Egli pose finalmente termine alle interminabili guerre con la Cina e firmò un trattato grazie al quale le relazioni tra Cina e Tibet si normalizzarono. Purtroppo per Ralpachen, e anche per il Tibet, la forte simpatia che il sovrano manifestava per il Buddhismo suscitò invidie, gelosie e risentimenti di ogni genere. Un gruppo di oppositori approfittò della situazione per organizzare una sanguinosa congiura di palazzo. Si fece appello ai sentimenti sciovinisti di alcune famiglie aristocratiche che ancora consideravano il Buddhismo un corpo estraneo al Tibet e si esasperarono le paure dei sacerdoti bon-po timorosi che la loro antica religione venisse del tutto soppiantata dalla nuova. Sostenendo che il monarca era manovrato da elementi stranieri i congiurati diedero vita a un cruento complotto che culminò nel 838 con l’assassinio dello stesso Ralpachen a cui successe il fratello maggiore Langdarma. Questi era un acerrimo nemico del Buddhismo che perseguitò con una durezza tale da essere ancora oggi ricordata. I templi e i monasteri vennero chiusi e profanati. I monaci uccisi o costretti all’abiura. Tutte le manifestazioni pubbliche ed esteriori della fede buddhista proibite. Le persecuzioni contro il Buddhismo volute da Langdarma furono così terribili che un monaco di nome Lhalungpa Pelgy Dorje decise di rompere i suoi voti di non-violenza e uccidere il re. La tradizione racconta che il religioso si introdusse, vestito con gli abiti di un sacerdote bon-po, nel palazzo reale durante una festa e riuscì a colpire a morte il sovrano con una freccia scagliata da un arco che aveva nascosto nelle larghe maniche della casacca. La scomparsa del monarca sanguinario segnò ad un tempo la fine della dinastia di Yarlung e dell’unità politica del Tibet. Quello che per quasi quattrocento anni era stato uno dei più forti imperi dell’Asia si frammentò in una miriade di piccoli principati sovente in guerra tra loro e che per molti secoli rimarranno tali. Il ricordo degli antichi fasti rimase solo nel Tibet occidentale dove si trasferì un ramo della dinastia di Yarlung che diede vita ai regni di Guge e Purang i quali svolsero un ruolo di primo piano nella storia culturale della regione himalayana creando una tradizione artistico-religiosa di altissimo livello. Diversamente da quelle occidentali, le province centrali e orientali del Tibet entrarono in un periodo di confusione politica in cui l’assenza di un potere autorevole farà a lungo sentire i suoi effetti nefasti.

Tratto da “Il Tibet nel Cuore”, di P. Verni

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