Il milione di bambini tibetani nei collegi cinesi

15 settembre 2023

Importantissimo articolo del New York Times sulle scuole coloniali cinesi. Una barbarie, una vergogna senza alcuna giustificazione.

Il milione di bambini tibetani nei collegi cinesi

di Gyal Lo, sociologo ed attivista tibetano residente in Canada

traduzione di Roberta Faggian

 

Un giorno di fine novembre 2016, tornato a casa in Tibet, ho ricevuto una telefonata angosciante da mio fratello che mi diceva di controllare come stavano le sue nipoti. “Sta succedendo qualcosa di molto strano”, disse.

Le mie giovani parenti, che all’epoca avevano 4 e 5 anni, erano state appena iscritte in un convitto prescolare che il governo cinese aveva istituito nella mia città natale, Kanlho, una regione seminomade nell’angolo nord-orientale dell’altopiano tibetano. La loro nuova scuola era una delle tante – personalmente ne ho rintracciate circa 160 in tre sole prefetture tibetane – facenti parte della crescente rete di scuole materne di Pechino, in cui i bambini tibetani vengono separati dalle loro famiglie e comunità, e assimilati nella cultura cinese.

Sebbene fossero trascorsi soltanto tre mesi da quando le bambine avevano iniziato a frequentare la scuola, mio ​​fratello descrisse come stessero già iniziando ad allontanarsi dalla loro identità tibetana. Nei fine settimana, quando potevano tornare in famiglia, rifiutavano il cibo a casa. Erano meno interessate alle nostre tradizioni buddiste e parlavano il tibetano meno frequentemente. La cosa più allarmante era che si stavano allontanando emotivamente dalla nostra famiglia. “Potrei perderle se non si fa qualcosa”, si preoccupava mio fratello.

Preoccupato, qualche giorno dopo sono andato alla scuola femminile a riprenderle per il fine settimana. Quando uscirono dai cancelli, mi salutarono ma parlarono a malapena. Quando siamo arrivati ​​a casa, le bambine non hanno abbracciato i genitori. Parlavano tra loro solo mandarino e rimanevano in silenzio durante la cena in famiglia. Erano diventate estranee nella loro stessa casa.

Quando ho chiesto alle bambine qualcosa sulla scuola, la più grande ha raccontato che il primo giorno diversi bambini, pieni di ansia perché non riuscivano a comunicare con gli insegnanti che parlavano solo mandarino, urinavano e defecavano nei pantaloni.

Mentre il governo cinese continua il suo tentativo, che dura da 70 anni, di rafforzare la legittimità e il controllo sul Tibet, sta utilizzando sempre più l’istruzione come campo di battaglia per ottenere il controllo politico. Separando i bambini dalle loro famiglie e dall’ambiente familiare, incanalandoli in scuole residenziali dove potranno essere assimilati ai sudditi cinesi, lo stato scommette su un futuro in cui generazioni di tibetani più giovani diventeranno lealisti del Partito Comunista Cinese, dei soggetti modello, facili da controllare e da manipolare.

Attualmente questi collegi ospitano circa un milione di bambini tra i 4 e i 18 anni, circa l’80% della popolazione giovanile. Almeno 100.000 di quei bambini – ma credo ce ne siano molti di più – hanno solo 4 o 5 anni, come lo erano le mie nipotine.

Dopo aver ascoltato le storie delle ragazze, ho chiesto a mio fratello cosa sarebbe successo se si fosse rifiutato di mandarle. Ha pianto. Disobbedire alla nuova politica avrebbe significato vedere il suo nome inserito nella lista nera dei benefici governativi. Mi ha detto che altri, che hanno protestato contro le nuove scuole, hanno subito conseguenze terribili.

Inoltre non aveva altra scelta. Anche se i collegi cinesi per bambini tibetani esistono fin dai primi anni ’80, fino a poco tempo fa vi erano iscritti soprattutto studenti delle scuole medie e superiori. Ma a partire dal 2010 circa, il governo cinese, in preparazione alla nuova ondata di scuole materne residenziali, ha iniziato a chiudere le scuole nei villaggi locali, inclusa quella della nostra città natale. Poi ha reso la scuola materna un prerequisito per frequentare la scuola elementare. Sebbene molti dei nuovi collegi siano lontani dalle città natali dei bambini, rifiutarsi di iscriverli significherebbe per i bambini crescere con poca o nessuna istruzione e diventerebbero perciò ulteriormente emarginati in una economia da cui molti tibetani sono già esclusi.

Afflitto dai cambiamenti osservati nella mia famiglia, negli anni successivi ho deciso di visitare più di 50 scuole residenziali dell’infanzia nel Tibet settentrionale e orientale, aree che la Cina chiama province del Qinghai, del Sichuan e del Gansu. Nel corso dei miei tre anni di lavoro sul campo, di incontri con studenti, genitori e insegnanti, ciò che ho scoperto è stato peggiore di qualsiasi cosa avrei potuto immaginare.

Ho incontrato giovani bambini tibetani che non sapevano più parlare la loro lingua madre. Le scuole controllavano rigorosamente le visite dei genitori. In alcuni casi, gli scolari vedevano le loro famiglie solo una volta ogni sei mesi. I dormitori, i campi da gioco e gli uffici degli insegnanti erano pesantemente sorvegliati. Ho visto telecamere di sicurezza installate nelle aule, senza dubbio per assicurarsi che gli insegnanti – molti dei quali erano giovani studenti universitari cinesi, con poca o nessuna conoscenza della lingua e della cultura tibetana – utilizzassero solo libri di testo approvati dal PCC.

In una scuola che ho visitato nella città nomade di Zorge, un bambino con nostalgia di casa, in tono molto calmo, ha detto: “Quando fa buio la sera e non posso prendermi cura di me stesso, sento la mancanza di mia mamma e dei miei nonni”.

Una donna del mio villaggio, i cui bambini erano stati mandati in collegio mi ha detto: “Ogni volta che tornavo a casa esausta, dopo aver lavorato tutto il giorno nella fattoria, volevo abbracciare i miei bambini di 4 e 5 anni. Ma non c’erano”. Per guarire il dolore della separazione, lei e un gruppo di altre giovani madri del suo villaggio hanno organizzato un pellegrinaggio a piedi fino a Lhasa di 1.200 chilometri.

Un abitante del villaggio mi ha detto: “Ci rendiamo conto che il governo non è nostro. Quando i funzionari vengono nella nostra città, non conoscono la nostra lingua né sanno come comunicare con noi”.

Un altro si è chiesto: “Come possono sopravvivere la nostra lingua e la nostra cultura se non siamo in grado di fermare ciò che sta accadendo?”

L’uso delle scuole da parte di Pechino per cancellare la cultura tibetana non è una novità. Durante la Rivoluzione Culturale, il governo vietò l’insegnamento del tibetano in molte scuole. Poi, nel 1985, oltre ai collegi che erano stati istituiti in Tibet, Pechino avviò il suo programma scolastico interno che mandava gli studenti tibetani in collegi nella Cina continentale. James Leibold, un esperto di politiche etniche cinesi, ha descritto le scuole come “un campo di addestramento in stile militare su come essere ‘cinese’ e su come conformarsi a modi accettabili di agire, pensare ed essere”. Nel 2005, 29.000 studenti tibetani avevano frequentato queste scuole.

La tendenza ha subito un’accelerazione e ha raggiunto bambini sempre più piccoli. Nel marzo 2018, durante una riunione annuale del Parlamento, il presidente Xi Jinping ha affermato che: “i valori fondamentali del socialismo dovrebbero essere alla base della comune casa spirituale di tutti i gruppi etnici” e che “dovrebbero essere coltivati ​​tra la gente, in particolare tra i bambini e anche negli asili nido”.

L’attenzione di Pechino nel separare i giovani tibetani dalla loro cultura ha finalmente attirato l’attenzione di Washington. Il mese scorso, il segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha annunciato che gli Stati Uniti avrebbero imposto restrizioni sui visti a funzionari cinesi coinvolti nella “coercizione dei bambini tibetani in collegi gestiti dal governo”. Mentre altri paesi come il Canada e l’Australia stanno facendo i conti con la propria storia dei collegi coloniali, mi auguro possano seguire le orme del Segretario Blinken e intervenire mentre la Cina replica con entusiasmo questi orrori nella mia patria.

Posso solo sperare che l’attenzione internazionale costringa Pechino a ripensare la sua politica e a modificare il destino di bambini come le mie piccole parenti. Dopo anni di lavoro sul campo sono profondamente preoccupato per il destino della cultura tibetana, che scomparirà lentamente man mano che sempre più bambini saranno costretti a diventare cinesi, e che la cultura tibetana che conosco e adoro non sopravviverà per le generazioni future. E inoltre temo anche che cresceranno come perpetui estranei nelle proprie case, nella propria patria.

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The One Million Tibetan Children in China’s Boarding Schools

Sept. 15, 2023

By Gyal Lo

Dr. Lo is an educational sociologist and a Tibetan activist based in Canada.

 

One day in late November 2016, back home in Tibet, I received a distressing call from my brother telling me I needed to check on his granddaughters. “Something very strange is happening,” he said.

My young relatives, who were 4 and 5 years old at the time, had just enrolled in a boarding preschool that the Chinese government had established in my hometown, Kanlho, a seminomadic region in the northeast corner of the Tibetan plateau. Their new school was one of many — I have personally tracked about 160 in three Tibetan prefectures alone — and part of Beijing’s growing network of preschools in which Tibetan children are separated from their families and communities and assimilated into Chinese culture.

Though it had only been three months since the girls had started at the school, my brother described how they were already beginning to distance themselves from their Tibetan identity. On weekends, when they could return from school to their family, they rejected the food at home. They became less interested in our Buddhist traditions and spoke Tibetan less frequently. Most alarmingly, they were growing emotionally estranged from our family. “I might lose them if something isn’t done,” my brother worried.

Concerned, I set out to the girls’ school a few days later to pick them up for the weekend. When they walked out of the gates, they waved to me but barely spoke. When we arrived home, the girls didn’t hug their parents. They spoke only Mandarin to each other and remained silent during our family dinner. They had become strangers in their own home.

When I asked the girls about school, the older one recounted how on the first day several children, anxious from being unable to communicate with teachers who only spoke Mandarin, urinated and defecated in their pants.

As the Chinese government continues its 70-year quest to build legitimacy and control over Tibet, it is pivoting increasingly to using education as a battlefield to gain political control. By separating children from their families and familiar surroundings and funneling them into residential schools where they can become assimilated into Chinese subjects, the state is betting on a future where younger generations of Tibetans will become groomed Chinese Communist Party loyalists, model subjects easy to control and manipulate.

Today these boarding schools house roughly one million children between ages 4 and 18, approximately 80 percent of that population. At least 100,000 of those children — and I believe there are many more — are only 4 or 5 years old, like my nieces were.

After listening to the girls’ stories, I asked my brother what would happen if he just refused to send them. He teared up. Disobeying the new policy would mean having his name blacklisted from government benefits. Others who have protested the new schools have suffered terrible consequences, he said.

He also didn’t have any other choice. Though Chinese boarding schools for Tibetan children have been around since the early 1980s, until fairly recently they had mostly enrolled middle and high school students. But beginning around 2010, the government, in preparation for the new wave of residential preschools, began shutting down local village schools, including the one in our hometown. Then it made preschool a prerequisite for elementary school. Though many of the new boarding schools are far from children’s hometowns, refusing to enroll in them would mean children would grow up with little to no education and become further marginalized from an economy that many Tibetans are already excluded from.

Distressed by the changes I observed in my family, I set out over the next few years to visit more than 50 boarding preschools across northern and eastern Tibet, areas that China calls the Qinghai, Sichuan and Gansu provinces. Over the course of my three years of fieldwork and meetings with students, parents and teachers, what I discovered was worse than anything I could have imagined.

I met young Tibetan children who could no longer speak their native tongue. The schools strictly controlled parental visits. In some cases, schoolchildren saw their families only once every six months. Dormitories, playgrounds and teachers’ offices were heavily surveilled. I saw security cameras installed in classrooms, no doubt to make sure teachers — many of whom were young Chinese undergraduates with little to no background in Tibetan language and culture — only used C.C.P.-approved textbooks.

In one school I visited in the nomadic town of Zorge, a homesick child, in a very quiet tone, said: “When it gets dark in the evening and I can’t take care of myself, I miss my mom and grandparents.”

A woman in my village whose small children had been sent to a boarding school told me: “Whenever I came home exhausted after working all day on the farm, I wanted to hug my 4- and 5-year-old kids. But they were not there.” To heal the pain of their separation, she and a group of other young mothers from her village organized a 1,200-kilometer walking pilgrimage to Lhasa.

One villager told me: “We realize that the government is not ours. When officials come to our town, they don’t know our language or how to communicate with us.”

Another asked: “How can our language and culture survive if we are not able to stop what is happening?”

Beijing’s use of schools to erase Tibetan culture isn’t new. During the Cultural Revolution, the government banned the teaching of Tibetan in many schools. Then, in 1985, in addition to the boarding schools that had been set up inside Tibet, Beijing pioneered its Inland Schooling Program, which sent Tibetan students off to boarding schools in mainland China. James Leibold, an expert in Chinese ethnic policies, described the schools as “a military-style boot camp in how to be ‘Chinese’ and how to conform to acceptable ways of acting, thinking and being.” By 2005, 29,000 Tibetan students had attended these schools.

The trend has only accelerated — and reached younger and younger children. In March 2018, at an annual Parliament meeting, President Xi Jinping said that “core socialist values should set the tone of the common spiritual home of all ethnic groups” and “should be nurtured among the people, particularly children and even in kindergartens.”

Beijing’s focus on separating younger Tibetans from their culture has finally caught Washington’s attention. Last month, the U.S. secretary of state, Antony Blinken, announced that the United States would impose visa restrictions on Chinese officials who are involved in “the coercion of Tibetan children into government-run boarding schools.” As other countries like Canada and Australia reckon with their own history of colonial boarding schools, I hope they follow in Secretary Blinken’s footsteps and intervene as China enthusiastically replicates these horrors in my homeland.

I can only hope that the international attention will force Beijing to rethink its policy and alter the fates of children like my young relatives. After years of fieldwork, I am deeply concerned for the fate of Tibetan culture: that it will slowly disappear as more and more children are forced to become Chinese, and the Tibetan culture that I know and cherish will not survive for future generations. Or else I worry that they will grow up as perpetual strangers in their own homes, in their own homeland.