TIBET: UN CAMBIAMENTO EPOCALE?

11 marzo 2011. Il discorso pronunciato dal Dalai Lama in occasione del 52° anniversario dell’insurrezione di Lhasa del 1952, ha provocato una dura la replica da Pechino, dove la portavoce del ministero degli Esteri, signora Jiang Yu, ha affermato che le parole del leader tibetano non sono altro che “un trucco per ingannare la comunità internazionale”, e che, come sempre, il Premio Nobel per la pace “usa la bandiera della religione” per coprire “attività secessionistiche”. A commento di questo momento cruciale della vicenda tibetana, pubblichiamo l’articolo di Piero Verni apparso in data odierna sul quotidiano Il Riformista.

 

“Fin dai primi anni ’60, ho incessantemente sostenuto che ai tibetani serve un leader, direttamente eletto, al quale devolvere il mio potere. È arrivato il momento di rendere effettivo questo passaggio”. Lo ha detto ieri mattina a Dharamsala (India settentrionale) il Dalai Lama nel suo tradizionale messaggio del 10 marzo, anniversario dell’insurrezione di Lhasa del marzo 1959.

E’ un ulteriore passo del leader tibetano verso quella rinuncia ai suoi poteri temporali di cui aveva già parlato in un’intervista rilasciata nel novembre scorso alla televisione indiana Cnn-Ibn. Certo non sarà una decisione facile e con effetto immediato considerando la venerazione che la grande maggioranza dei tibetani dentro e fuori il Tibet nutre nei suoi confronti. Eppure si tratta di una scelta obbligata per portare a compimento quel processo di modernizzazione della comunità dei profughi iniziato nel 1963 con la promulgazione di una Costituzione democratica e proseguito con l’elezione diretta di un Parlamento in Esilio e di un Primo Ministro. Nel medesimo tempo è anche una mossa che cerca di contrastare Pechino relativamente all’uso che la Cina si appresta a fare, dopo la morte del presente Dalai Lama, di una “reincarnazione di regime” scelta e allevata all’ombra del Partito Comunista.

Forse nelle parole pronunciate ieri dal leader tibetano si può leggere in controluce anche una velata presa d’atto che la politica moderata nota come Via di Mezzo non ha prodotto i risultati sperati e probabilmente non li potrà mai produrre. Infatti, in un altro passo del suo discorso, il Dalai Lama ricordando il realismo delle politiche cinesi dei primi anni ’80 afferma: “Se questo spirito realistico fosse continuato, la questione tibetana e alcuni altri problemi si sarebbero potuti facilmente risolvere.“ Ma quello spirito non continuò.

A questo proposito è utile ricordare che la proposta della Via di Mezzo era stata concepita quando la leadership di Hu Yao Bang sembrava in procinto di condurre l’intera Cina verso autentiche aperture politiche. Quindi al Dalai Lama parve arrivato il momento di inserire il caso Tibet, con tutte le sue peculiarità, all’interno di questo progetto riformatore dichiarando apertamente che lui e il suo popolo erano disposti a rinunciare ufficialmente alla richiesta di indipendenza in favore di una genuina autonomia del Paese delle Nevi nel quadro di un nuovo contesto cinese. La storia invece andò in direzione contraria. Hu venne destituito, i suoi funerali diedero vita al movimento della Tienanmen e alla sua violenta repressione, i dirigenti cinesi si convinsero ancor più che le riforme economiche potevano poggiare solo su di un capillare controllo autoritario della società. Così il Dalai Lama si trovò a chiedere per il Tibet aperture e spazi di autonomia che Pechino non vuole concedere a nessuno. Tanto meno ai tibetani. Risultato: la Via di Mezzo è finita in un vicolo cieco con l’amministrazione tibetana in esilio che disperatamente cerca di strappare almeno un inizio di dialogo e la controparte cinese che rimane ferma nelle sue algide chiusure.

In ogni caso un sia pur graduale abbandono da parte del Dalai Lama delle sue responsabilità politiche è destinato ad avere notevoli ripercussioni. In modo particolare all’interno della comunità degli esuli che il prossimo 20 marzo sceglieranno democraticamente il nuovo Kalon Tripa (primo ministro) del loro governo in esilio. Sulle spalle di colui che verrà eletto graverà una responsabilità non indifferente, per la prima volta un tibetano si potrà trovare alla guida di un governo in cui il Dalai Lama potrebbe non ricoprire alcuna carica. Ed è piuttosto probabile che un nuovo e più defilato ruolo dell’Oceano di Saggezza possa favorire le posizioni, oggi minoritarie, di quanti ritengono giunto il momento di abbandonare la Via di Mezzo per tornare a lottare per la completa indipendenza del Tibet.

Dal canto suo Pechino è invece notevolmente contrariata. Nei giorni scorsi, tramite il governatore del Tibet Padma Choling, aveva fatto sapere che non riconosce al Dalai Lama il potere di cambiare le tradizioni religiose tibetane. E ieri, pochi minuti dopo che il discorso della “Presenza” era stato reso noto, Jiang Yu portavoce del Ministero degli Esteri ha denunciato le parole del leader tibetano come “…un trucco per ingannare la comunità internazionale”. Nel presente contesto politico le autorità cinesi mostrano diversi segni di nervosismo. Colpiscono duramente anche le più esili espressioni di dissenso e temono che il vento del Maghreb possa soffiare così forte da lambire i loro palazzi. Quindi un cambiamento tanto epocale sulla scena tibetana preoccupa non poco i signori di Zhongnanhai. Sanno bene che, come diceva Mao, “una scintilla può dar fuoco all’intera prateria”. E sospettano che una di queste scintille possa trovarsi proprio sugli sterminati altopiani del Tetto del Mondo.

Piero Verni

Il Riformista, 11 marzo 2011