Credere a Hu Jintao?

di Piero Verni

(da Il Riformista, 21 gennaio 2011)

Eppure ci si erano messi di impegno organizzando manifestazioni, sit-in di protesta, petizioni, invii di lettere. Ma gli accorati appelli rivolti nei giorni scorsi ad Obama da decine di organizzazioni umanitarie e dai gruppi in esilio di tibetani, uiguri, taiwanesi, dissidenti cinesi ed esponenti della scuola religiosa Falun Dafa, sembrano essere caduti nel vuoto. Infatti, durante la visita negli USA di Hu Jintao (probabilmente l’ultima visto che il mandato del leader cinese scadrà nel 2013) il presidente americano ha usato il guanto di velluto. Oltre ad aver offerto all’ospite quel pranzo di gala, che gli era stato negato da Bush nel 2006, le dichiarazione rilasciate dal presidente democratico sono state più che morbide. Felpato l’accenno alla drammatica situazione dei diritti umani in Cina, “La storia dimostra che le società sono più armoniose, le nazioni hanno più successo ed il mondo è migliore quando i diritti e le responsabilità di tutti i popoli sono rispettati. Inclusi i diritti universali di tutti gli esseri umani”. Soave l’auspicio che Pechino e Washington possano, “… cogliere l’opportunità di lavorare insieme mano nella mano». E più che moderati anche gli accenni alle tensioni generate nel mondo economico americano dalla costante sottovalutazione dello yuan, “Ho detto al presidente Hu che accogliamo con favore l’aumento della flessibilità deciso dalla Cina per la sua valuta e che continueremo ad insistere perché il valore della moneta cinese sia sempre più fissato dal mercato.”

Certo in compenso il giovane presidente democratico è riuscito a strappare alla sua controparte cinese l’inusuale ammissione (peraltro censurata in patria dalla televisione di stato) che nell’ambito dei diritti umani in Cina, “… c’è ancora molta strada da fare”. Sia pure dopo aver premesso che però la Repubblica Popolare ne aveva già fatta molta. Al momento di andare in stampa non si conoscono ancora le reazioni del Dalai Lama e del suo governo in esilio a queste parole di Hu Jintao e magari potranno anche essere positive. Ma le affermazioni di Hu sembrano non convincere il mondo di quanti vivono in esilio lontano da Pechino.

“Intanto si deve capire che quando i dirigenti cinesi parlano di diritti umani non intendono quello che intendete voi occidentali”, ricorda Karma una tibetana naturalizzata italiana, “per loro si tratta solo del miglioramento delle condizioni materiali e non c’entra nulla la democrazia, la libertà di espressione, le libertà religiose, politiche e sindacali. Detto questo comunque non credo che le parole di Hu Jintao siano sincere. O quantomeno non mi bastano. Lo vorrò vedere alla prova dei fatti, ad esempio se libererà il Premio Nobel Liu Xiao Bo o dirà a noi tibetani che fine ha fatto il Panchen Lama, tanto per fare i primi due esempi che mi vengono in mente”. Altrettanto scettico è Thupten, ex presidente della Comunità Tibetana in Italia che ha dichiarato al Riformista, “Non penso ci si possa  fidare di una persona come Hu Jintao; a mio avviso la sua è una dichiarazione che lascia il tempo che trova perché i progetti a lungo termine del governo cinese non sono in sintonia con quelle parole e la via imboccata da Pechino va in tutt’altra direzione.”

Anche il mondo della dissidenza cinese pare essere sulla medesima lunghezza d’onda. Wei Jinsheng, Premio Sakarov Per la Libertà di Pensiero 1996, dopo aver scontato diversi anni di prigione in Cina vive dal 1997 negli Stati Uniti ed è uno dei rappresentanti più in vista dell’opposizione al regime di Pechino. Wei ha una sua opinione ben precisa relativamente a quanto detto da Hu. “Le parole di Hu Jintao hanno fatto molto scalpore ma ritengo non siano altro che fumo negli occhi. Era stato molto duro sulla svalutazione dello yuan, aveva detto che il periodo dell’economia governata dal dollaro è finito e aveva fatto intuire di candidare proprio lo yuan a sostituto della moneta americana, anche se non nell’immediato. Quindi ha dovuto dire quello che ha detto. Non penso proprio che alle parole seguiranno i fatti”.

Analoga impressione quella di Lan, esponente dell’Associazione Falun Dafa-Italia. “Noi praticanti di Falun Dafa viviamo ogni giorno l’esperienza di una vera e propria persecuzione, colpevoli solamente di praticare i principi di verità, compassione e tolleranza. Oggi in Cina chi segue valori nobili e positivi viene incarcerato, torturato e ucciso. Quindi questa dichiarazione mi sembra incredibile anche perché la natura repressiva del regime comunista non può consentire alcun cambiamento”.

Insomma gli oppositori non si fidano. E sembra difficile da loro torto avendo ancora nelle orecchie l’eco delle agghiaccianti accuse urlate nei giorni scorsi dai dimostranti anti Hu nelle principali citta nord americane. Condanne a morte extragiudiziali, torture in carcere, trapianti illegali di organi, aborti forzati oltre il quarto mese di gravidanza. Sì, “… c’è ancora molta strada da fare” presidente Hu, ma forse il suo gruppo di potere non è il più disposto ad aprila.

 

Piero Verni

Il Riformista, 21 gennaio 2011