La casa-simbolo circondata dagli agenti. La morsa di Pechino: decine di fermi, tv e web oscurati

di Marco Del Corona

Pechino – Erano davanti al caseggiato dove la moglie di Liu Xiaobao vive senza di lui, mescolati agli agenti in borghese. Gli amici di Liu si guardano in giro. Avevano firmato Charta 08, alcuni la pensano come lui e nelle università provano, con prudenza, a lasciarlo capire. Altri si sono ritrovati alla spicciolata in sale da tè, per festeggiare, il passaparola – telefonate veloci, sms, Twitter – indirizzava poi a una celebrazione con numeri pirotecnici, nei sobborghi. “Ci arresterebbero legittimamente, niente fuochi d’artificio in città”. Location provocatoria, dalle parti della sede della Scuola centrale del Partito comunista. E invece no. Alle 9, un’ora prima dell’appuntamento, tutto rimandato. “Ne hanno fermati almeno due”, diceva nella notte al Corriere uno dei partecipanti mancati, mentr l’agenzia di stampa Efe citava l’avvocato Teng Biao: “Una ventina di arresti”. Anche se leggi e nuove direttive spingono per prassi giudiziarie e di polizia meno violente e arbitrarie, chi entra in rotta di collisione col potere sa di doversi aspettare la visita notturna, gli oggetti confiscati, il “venga con noi” (e magari si prepara a sparire per mesi, come l’avvocato Gao Zhisheng, ricomparso dopo un anno in un monastero e poi scivolato ancora nell’ombra).

La rabbia delle autorità cinesi per il caso Liu fermentava da tempo. Ancora la settimana scorsa la viceministro degli Esteri, Fu Yin, alla vigilia del viaggio europeo del premier Wen Jabao non aveva confermato né smentito di avere ammonito in estate il comitato del Nobel. A Oslo avrebbe avvertito che non sarebbe stato opportuno per la Norvegia che il premio andasse “a un criminale”, secondo dichiarazioni del presidente del comitato stesso. La signora Fu, diplomatico esperto e sorridente, aveva spiegato ai giornalisti 10 giorni fa di non ricordare: certo, “va fugata la reciproca sfiducia tra Cina e Occidente”, ma aveva ribadito durissima che Liu “resta una persona condannata per aver violato la legge”.

Ancora meno sorrisi hanno distribuito ieri i poliziotti che hanno costretto in casa Liu Xia, la moglie del neo-Nobel. Telefonate, e sms, e messaggi su Twitter, per dire della sua felicità e di come il premio “vada a tutti coloro che lavorano per i diritti umani e la giustizia in Cina”. Fuori, intanto, un viavai di agenti, i nastri tesi davanti alla Ann Jema Spa per allontanare dal cancello giornalisti e curiosi, questi ultimi ignari – come la stragrande maggioranza dei cinesi – della semplice esistenza di Liu Xiaobo.

Mentre Liu Xia preparava le sue cose per essere portata fuori città – prassi abituale per  dissidenti e voci critiche nell’imminenza di date sensibili, che siano congressi o anniversari tabù – dirette e servizi delle grandi tv internazionali, Bbc e Cnn, sono stati oscurati e una censura selettiva bloccava notizie e pagine web dedicate a Liu. L’arsenale informatico di controllo ha dispiegato il suo abbraccio. E al telefono, Shi Yinhong – professore della Scuola di studi internazionali dell’Università del Popolo, vicino alla leadership di Pechino – riassume al Corriere il fastidio dell’intellighenzia ufficiale: “Questo Nobel produrrà antipatia tra i cinesi per il premio, la Norvegia, forse l’intera Europa. Se pensano che questo serva´a mutare la linea politica della Cina, guardiamo cos’è successo dopo il Nobel al Dalai Lama: Pechino ha cambiato qualcosa riguardo al Tibet? No. Liu Xiaobo in Cina non rappresenta la pace ma la turbolenza”.

E c’è persino la brutta sorpresa. Nei giorni scorsi diversi dissidenti storici, ormai tutti all’estero e sradicati dalla realtà cinese e dalla sua nascente società civile, hanno criticato preventivamente l’ipotesi di un Nobel a Liu: “Non è deglo, è un collaborazionista”. Ieri, poi, Wei Jingsheng, decano del dissenso dal ’97 negli USA, ha speso parole che grondano astio: “È diverso da noi, criticava gli altri che soffrivano, parlava con il governo”. Come dire: quasi un collaborazionista. Fuoco amico. Ma a Pechino c’è chi preferisce preparare per Liu i fuochi d’artificio, costi quel che costi.

Marco Del Corona

Corriere della Sera

9 ottobre 2010