Testimonianza di Nyima Drakpa, deceduto il 10 ottobre 2003

Il 10 ottobre 2003, il Centro Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia ha dato notizia della morte di Nyima Drakpa, un monaco tibetano di ventinove anni, nato nella contea di Tawu, a Kardze, nella provincia del Sichuan. Alla fine del 1999, Nyima aveva affisso ai cancelli del Memorial Garden di Tawu alcuni manifesti inneggianti all’indipendenza del Tibet. Arrestato nel maggio 2000 a Lhasa, dopo un processo a porte chiuse era stato condannato a nove anni di carcere per “minaccia alla sicurezza dello stato” e per “incitamento delle masse”. A causa delle torture subite nel centro di detenzione della contea, le condizioni di salute del giovane monaco si erano aggravate al punto da indurre il tribunale a concedergli, nel settembre 2003, gli arresti domiciliari. Nyima Drakpa si è spento nella sua casa il 1° ottobre. Nel 2001, presagendo l’imminenza della sua morte, aveva raccontato, in una lettera, la propria storia e lanciato ai suoi compatrioti un accorato appello alla lotta. Questi i passi salienti del suo messaggio:

UN APPELLO DAL PROFONDO DEL MIO CUORE
A Sua Santità il Dalai Lama e a tutti i miei fratelli tibetani

Sono un tibetano della contea di Tawu, nella regione del Kham, e mi chiamo Keri Nyima Drakpa. Non sono una persona colta, non detengo posizioni di potere né sono ricco. Sono soltanto un uomo che ama infinitamente il suo paese. Mi sono sempre preoccupato dello stato di assoluta arretratezza del mio paese e del fatto che, oppressi dalla classe di governo, noi tibetani non abbiamo alcun diritto, nemmeno quello di esprimerci nella nostra lingua. I diritti umani ci sono negati e di conseguenza non godiamo di alcuna autorità politica.

Dopo aver studiato e assimilato le gloriose testimonianze storiche sull’esercizio del potere politico e il governo del paese da parte dei miei antenati, ho deciso che, se necessario, avrei sacrificato la mia vita per il bene del Tibet. Per questo motivo, poiché, con grande sincerità, desideravo che i miei connazionali potessero godere della dovuta libertà e poiché speravo ardentemente nella costituzione di uno stato tibetano separato dalla Cina, ho scritto molti manifesti nei quali chiedevo a tutti i cinesi di “tornare nelle loro città d’origine per rendere possibile l’indipendenza del Tibet…” Ho firmato con il mio nome, in modo chiaro, ogni manifesto.

Tuttavia, sfortunatamente, il destino ha voluto che la mia preziosa vita finisse nelle mani crudeli e repressive dei cinesi. Il 22 marzo dello scorso anno, quattro membri dell’Ufficio di Pubblica Sicurezza di Tawu sono arrivati a Lhasa e mi hanno arrestato. Senza nemmeno pormi una domanda, hanno iniziato a picchiarmi, così come si picchia un tamburo, rendendomi del tutto incapace di proferire anche una sola parola. Non mi hanno dato né un boccone di cibo né un goccio d’acqua e mi hanno subito riportato in aereo a Chengdu.

Una volta arrivati, hanno lasciato che alcuni funzionari della sicurezza mi picchiassero. Queste reincarnazioni del demonio mi hanno appeso a testa in giù e mi hanno colpito senza pietà fino a lasciarmi tramortito. Ho perso conoscenza. Quando ho ripreso i sensi erano circa le undici di sera. Avvertivo lancinanti dolori in tutto il corpo e non riuscivo a muovermi. Ho capito che le mie gambe erano paralizzate e del tutto insensibili.

Dopo dieci giorni sono iniziati gli interrogatori. Nonostante i fortissimi dolori, ho detto esattamente tutto quello che pensavo e provavo nel profondo del mio cuore e ho riconosciuto di aver scritto quei manifesti. Il 5 ottobre 2000, la Corte delle Prefettura Autonoma Tibetana di Kardze mi ha condannato a nove anni di carcere. Adesso, sono talmente prostrato che non riesco a mangiare nemmeno un boccone e i crudeli cinesi mi hanno reso zoppo. So che, tra non molto, morirò.

Non ho certo paura di morire. Poiché questo tibetano dalla faccia rubiconda sta per esalare l’ultimo respiro, consegnate questo appello al mio zio materno, Jowo Kyab, o a quei fratelli compatrioti che hanno a cuore l’interesse e la causa del Tibet affinché, grazie ai buoni uffici di Sua Santità il Dalai Lama, la comunità internazionale possa conoscere i trattamenti prepotenti e crudeli e le punizioni inflitte, con la copertura della legge, ai tibetani come me.

Mi appello inoltre ai fratelli compatrioti tibetani che hanno lo stesso mio sangue e le stesse mie ossa: dovete conoscere e capire la verità sui maltrattamenti cui la Cina ci sottopone ricorrendo ad azioni prepotenti, illegali e immorali. Dobbiamo unirci, a tutti i costi, e insorgere contro la Cina.

Keri Nyima Drakpa
1 aprile 2001