Rilasciato l’attivista tibetano Tashi Wangchuk

1° febbraio 2021. Il 28 gennaio, scontata la pena a cinque anni di carcere inflittagli nel 2018 dal tribunale di Yushu, Tashi Wangchuk è stato rilasciato.

Ne ha dato notizia Liang XiaoJun, il suo avvocato, che in un tweet ha fatto sapere che Tashi Wangchuk, apparentemente in buone condizioni di salute, ha fatto ritorno, sotto scorta, a Yushu e si stava recando a casa della sorella. Ha tuttavia reso noto che, non avendo ancora potuto parlargli, non era in grado di dire se il suo assistito fosse del tutto libero.

Tashi Wangchuk aveva imparato il cinese a scuola e solo più tardi e con l’aiuto di un fratello aveva appreso la lingua tibetana diventando uno strenuo difensore del diritto dei tibetani a studiare ed esprimersi nel proprio idioma. Il 24 maggio 2018 era stato condannato a cinque anni di carcere dal tribunale della Prefettura della Contea di Yushu, nella regione del Kham.

Tashi Wangchuk, oggi trentottenne, era stato arrestato il 27 gennaio 2016, due mesi dopo la pubblicazione sul New York Times di un articolo e di un documentario in cui denunciava le pressioni e lo stato di paura in cui versavano i suoi connazionali ed esprimeva il timore dell’annientamento della cultura tibetana attuato dal governo cinese attraverso la progressiva riduzione e il deterioramento della lingua scritta e parlata. Accusato di “incitamento al separatismo” nonostante avesse sempre dichiarato di non volere l’indipendenza del Tibet, Tashi era comparso davanti al Tribunale del Popolo della Prefettura di Yushu, nella regione del Kham, la mattina del 4 gennaio 2018. Liang Xiaojun, il suo avvocato, aveva fatto sapere che il processo, durato circa quattro ore, si era concluso senza una sentenza di rinvio a giudizio in data da stabilirsi. Nel video, intitolato “Il viaggio di un tibetano verso la giustizia” e proiettato in aula come prova d’accusa, Tashi Wangchuk parlava dei viaggi da lui effettuati a Pechino nel tentativo di sollecitare le autorità di governo della prefettura di Yushu a non impedire l’apprendimento e l’uso della lingua tibetana nelle scuole. Nei nove minuti della durata del filmato, Tashi, parlando in lingua mandarina, ricordava che i 140 tibetani fino a quel momento immolatisi Tibet dal 2009 avevano agito in segno di protesta anche per la scomparsa della loro cultura. Dichiarava inoltre di voler cercare una soluzione del problema attraverso la piena attuazione delle leggi sulle minoranze etniche previste dalla Costituzione della Repubblica Popolare Cinese auspicando l’introduzione nelle scuole di un autentico sistema di insegnamento bilingue che consentisse ai bambini tibetani di parlare fluentemente la lingua madre. Affermava che l’assenza dell’adozione del bilinguismo sia nelle scuole sia negli uffici governativi violava la Costituzione cinese che garantisce l’autonomia culturale dei tibetani e di tutte le minoranze.

La sentenza di condanna era stata pronunciata dal tribunale di Yushu il 22 maggio 2018, a distanza di oltre quattro mesi dal processo. Dichiarava Tashi Wangchuk colpevole di “incitamento al separatismo”. Ne aveva dato telefonicamente notizia Liang Xiaojun, il suo avvocato, precisando che il suo assistito intendeva ricorrere in appello, appello però respinto dall’Alta Corte del Tribunale del popolo in data 13 agosto. Il 15 gennaio 2019, i funzionari del carcere di Dongchuan, dove Tashi stava scontando la pena, avevano impedito ai suoi avvocati di incontrarlo definendo “sensibile” il caso del loro assistito.

Immediate all’epoca le prese di posizione di governi e gruppi internazionali a difesa dei diritti umani. Lobsang Sangay, presidente dell’Amministrazione Centrale Tibetana, aveva definito la condanna “un travisamento della giustizia” poiché Tashi Wangchuk nel difendere il diritto dei tibetani ad esprimersi nella loro lingua si era appellato a quanto previsto dalla Costituzione cinese in materia dei diritti delle minoranze. “La sentenza – aveva dichiarato Lobsang Sangay – prova che ai tibetani in Tibet sono negati i fondamentali diritti umani”. “E’ un giorno triste – aveva concluso – ma continueremo a batterci per il suo rilascio”. In un breve comunicato il Dipartimento di Stato americano aveva chiesto alle autorità cinesi l’immediato rilascio di Tashi Wangchuk richiamando Pechino al rispetto della peculiare identità religiosa, culturale e linguistica dei tibetani. L’Ambasciata del Canada in Cina aveva sollecitato il governo cinese al rispetto della sua Costituzione e degli impegni internazionali assunti in materia di diritti umani. A nome dell’Unione Europea, due portavoce della commissione Affari Esteri avevano invitato la Cina a rispettare il diritto di libera espressione di tutti i cittadini, comprese le minoranze etniche, come previsto dalla sua stessa Costituzione e dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Analoghe dichiarazioni erano state rilasciate da Human Rights Watch, Amnesty International e International Campaign for Tibet che dal 2016 non hanno mai cessato di chiedere la liberazione dell’attivista tibetano.

 

Fonti: savetibet.org – redazione