“Genocidio” degli uiguri in Cina. L’ultima accusa di Trump è la prima di Biden

Mentre Jack Ma, il patron del colosso di e-commerce Alibaba, riappare (online) dopo due mesi nei quali la sua sparizione aveva alimentato voci di ogni genere, per indirizzare uno strano discorso “motivazionale” ad alcuni insegnati della Cina rurale, (un’iniziativa dallo strano sapore, più da maoista che da miliardario in dollari come lui) Trump se ne va, e per bocca del suo miglior soldato, Mike Pompeo, sgancia l’ultima bomba sui rapporti con Pechino: la repressione feroce della Cina sulla popolazione di religione musulmana dello Xinjiang, gli Uiguri, è un “genocidio sistematico”. E per questo ha detto Pompeo, la Cina deve rispondere dei delitti di “Crimini contro l’Umanità” e, appunto, Genocidio.

Nulla di strano, fin qui, visto il tasso altissimo di ostilità manifestato dall’amministrazione di The Donald nei confronti del Dragone, se non fosse che anche il successore di Pompeo nell’entrante amministrazione Biden, Anthony Blinken, si è detto d’accordo: “Trump aveva ragione, dobbiamo affrontare Pechino da una posizione di forza” ha dichiarato il futuro segretario di Stato Americano il quale, nel corso della sua audizione al Senato per la ratifica della nomina, ha condiviso senza incertezze l’accusa alla Cina di “genocidio” mossa ieri da Pompeo, che aveva dichiarato: “almeno dal marzo 2017, Pechino ha perpetrato “crimini contro l’umanità” contro gli uiguri e altre minoranze nella provincia Nord-Occidentale”, con arresti arbitrari di oltre un milione di civili, sterilizzazioni forzate, torture, lavori forzati e restrizioni alla libertà di religione, espressione e movimento. “I processi di Norimberga alla fine della Seconda guerra mondiale hanno perseguito gli autori di crimini contro l’umanità, gli stessi crimini che vengono perpetrati nello Xinjiang”, ha insistito Pompeo, ufficializzando così quella che, secondo il New York Times, è la denuncia più dura avanzata finora da un governo contro le politiche cinesi nello Xinjiang.

Lo scorso agosto, un portavoce dei democratici, citato dal sito di informazione “Politico”, si era già espresso in merito, dichiarando che la politica di Pechino nei confronti degli uiguri si poteva considerare un “genocidio”.

Trump dunque, andandosene, lascia sulla scrivania del suo successore un’agenda cinese pesantissima e ingombrante. Un’agenda, però, che malgrado quanto si sarebbe potuto pensare in un primo momento, non verrà più di tanto alterata e forse nemmeno “alleggerita” dai democratici che da domani comanderanno alla Casa Bianca.

Dentro la voluminosa agenda ci sono molte pagine che hanno già messo in difficoltà la Cina e promettono di creare ulteriori problemi a quella che, a sentire le dichiarazioni del presidente-imperatore Xi Jinping, che vorrebbe essere la marcia trionfale cinese verso una società “universalmente prospera” sotto il sole splendente del nuovo “socialismo con caratteristiche cinesi”.

Resta innanzitutto irrisolto “l’affair Huawei”, non soltanto perché la CEO del colosso dell’elettronica cinese Meng Wanzhou, figlia del fondatore di Huawei Ren Zhengfei, arrestata a dicembre 2018 a Vancouver in Canada, potrebbe essere estradata negli Stati Uniti – l’udienza inizia oggi – ma soprattutto perché quello contro Huawei – accusata dagli Usa di spionaggio e di vari illeciti internazionali, compresa una presunta violazione dell’embargo contro l’Iran – non è l’unico fronte di battaglia che Trump ha aperto contro le aziende cinesi, per cercare di colpire il Dragone dove fa più male: al portafoglio. E anche in questo caso, con ampio sostegno bipartisan. Basti pensare la recente risoluzione americana che colpiva tutte le aziende cinesi che hanno rapporti con i militari del PLA, vietando alle aziende americane di fare affari con loro, è passata con l’ampio sostegno dei voti democratici.

Una risoluzione che recentemente ha colpito anche l’altro gigante tecnologico cinese, Xiaomi, finito nel mirino degli Usa con la pesante accusa di “affiliazione all’esercito della Repubblica Popolare Cinese”.

Tra le fitte pagine dell’agenda cinese trumpiana ereditata ora da Biden ci sono ancora parecchi altri capitoli. Cominciando dalla questione “eterna” dei rapporti con Taiwan, “la provincia ribelle” come amano definirla i governanti cinesi. Qualsiasi contatto o apertura nei confronti di Taipei fa da sempre infuriare al sommo grado Pechino, e Trump non si è certo risparmiato nel mettere il dito in quella piaga, cominciando da quando, nel dicembre 2016, l’allora neoeletto presidente accettò di parlare al telefono con la presidente taiwanese Tsai Ying-wen, che voleva congratularsi. Fino alle recentissime aperture – volute sempre da Pompeo – per togliere gli ultimi paletti nei rapporti con Taipei, eliminando i divieti alle relazioni tra funzionari americani e taiwanesi.

Trump e i suoi hanno più volte ribadito che “gli Usa saranno sempre al fianco di Taiwan”, una dichiarazione che non ha soltanto implicazioni diplomatico-commerciali, ma appare anche e soprattutto come un chiaro monito sul piano militare a Pechino, che non ha mai nascosto come – potenzialmente, ma nemmeno troppo astrattamente – l’opzione militare per riprendersi l’isola ribelle resti più che mai percorribile. Così come quella che da qualche tempo rende sempre meno ipotetico un confronto militare diretto con gli Usa nella spinosa questione delle pretese territoriali della Cina sugli atolli delle Isole Spratzli e Paracelso nel Mar Cinese meridionale. Tensione alle stelle, con il rischio che un banale incidente possa scatenare il peggio.

E poi c’è Hong Kong, la nuova “provincia ribelle” – e pure ingrata, almeno a sentire come la pensano a Pechino – la cui esplosione terminale che stava ormai per trasformare mesi e mesi di proteste in una vera e propria rivolta, è stata bloccata dalla Cina soltanto con l’imposizione di una legge liberticida e totalmente antidemocratica detta “della Sicurezza Nazionale”, che gli ha consentito agevolmente di “spezzare le reni” all’opposizione democratica anti-Pechino nell’ex colonia britannica, con un’escalation repressiva senza precedenti: arresti arbitrari di massa (compreso addirittura, quello di un cittadino americano a HK, John Clancey un avvocato specializzato in tutela dei diritti umani) deportazioni e condanne in Cina – come quelle inflitte di recente da un tribunale di Shenzen a un gruppo di esponenti dell’opposizione che aveva cercato di fuggire in barca verso Taiwan.

E Hong Kong occupa parecchie pagine dell’agenda cinese ora nelle mani di Joe Biden, in una escalation di sanzioni, contro sanzioni cinesi, divieti, denunce internazionali da parte degli Usa e reazioni indignate e nemmeno troppo vagamente minacciose della Cina, in una spirale che minaccia di avvitarsi senza fine o – peggio ancora- di sfociare in qualcosa di veramente inimmaginabile…

Del resto, entro certi limiti, le sanzioni americane contro la Cina hanno dimostrato di sortire qualche effetto. Per esempio, quelle comminate contro i politici di Hong Kong colpevoli, secondo Washington, di avere promosso la repressione interna. In primis la già contestatissima governatrice, Carrie Lam, che ha dovuto ammettere come, a causa di queste sanzioni, non possa più avere un conto in banca o una carta di credito e – come ha dichiarato lei stessa recentemente – di avere per questo “la casa invasa da mucchi di denaro contante” (una ben strana dichiarazione, peraltro, che in qualsiasi altro Paese del Mondo che non fosse la comunque ordinata Hong Kong, le avrebbe fruttato una coda di “topi d’appartamento” in agguato dietro la porta di casa).

Da parte sua il governo dell’ex colonia, spalleggiato ormai apertamente da Pechino, studia ritorsioni su ritorsioni. Che non sempre però riescono ad essere efficaci, per esempio le analoghe sanzioni economiche contro esponenti di spicco della politica Usa – soprattutto politici repubblicani “colpevoli” di essere anti-cinesi – che non hanno in realtà creato loro grandi problemi, visto che il sistema interbancario internazionale resta per ora “a guida americana-europea”, basti pensare ai colossi delle carte di credito, Visa, Mastercard e American Express.

Quando non riesce a colpire efficacemente gli Usa, Pechino si rivolge allora contro i suoi alleati, in primis la Gran Bretagna. Londra, del resto, aveva fatto infuriare i governanti cinesi quando, in risposta alla stretta repressiva sulla sua ex colonia, aveva distribuito largamente a qualsiasi hongkonghese ne facesse richiesta, il suo passaporto BNO, British National Overseas Passaport, che dà diritto a una sorta di seconda cittadinanza britannica, seppure un po’ “di serie B”, perché non garantisce gli stessi diritti di cui gode il titolare di un vero e proprio passaporto inglese. Hong Kong in un primo momento aveva minacciato di disconoscerne completamente la validità, ripiegando poi di recente sul divieto, per i civil servants, i dipendenti statali che ne fossero intestatari, di mantenerlo, pena il licenziamento immediato.

Biden non si è mai del tutto sottratto al ritornello cardine di Trump, sul “pericolo cinese”. Al contrario, il nuovo presidente degli Stati Uniti ha più volte ribadito la necessità di “essere intransigenti e duri” nei confronti di una Cina che, utilizzando pratiche considerate scorrette, ha acquisito vantaggi ritenuti sleali, soprattutto nel settore delle alte tecnologie e, più in generale, della proprietà intellettuale. Come ha scritto lo stesso Biden sulla rivista Foreign Affairs la scorsa primavera, “la Cina non è nella posizione di permettersi di ignorare più di metà dell’economia globale,” se il resto del Mondo riesce ad agire e reagire in modo compatto.

Il nuovo presidente americano sembra tutt’altro che impreparato ad affrontare l’ormai storica sfida con il gigante cinese, forte di una situazione internazionale che vede la simpatia dell’opinione pubblica occidentale verso Pechino ai minimi storici. Ulteriormente in ribasso dopo le dichiarazioni degli esperti dell’Oms che hanno detto che Pechino ha occultato la pandemia alle sue origini. E ancor più dopo la diffusione dei video-shock girati di nascosto a Wuhan nei primi tempi da alcuni giornalisti -che per ora restano anonimi, sperando così di conservare la libertà e forse la pelle.

Xi Jinping lo sa molto bene, e certamente non si sta crogiolando nell’illusione che il successore del sicuramente odiato Trump ribalti la politica estera cinese di Washington. Anche se, probabilmente, non si è dimenticato di quando, nel 2011, un decisamente meno anziano Joe Biden, allora vicepresidente di Obama, stupì tutti partecipando proprio insieme a lui, a una partita di basket in una scuola superiore della provincia centro-meridionale del Sichuan.

Xi e i suoi, infatti, si stanno preparando da tempo ad affrontare – e se necessario reagire opportunamente – a un cambiamento a Washington che, almeno nei loro confronti, assomiglia sempre di più al gattopardesco “bisogna che tutto cambi, perché tutto resti come prima”

Di Marco Lupis

Huffingtonpost.it

20 gennaio 2021