Ecco il vero volto del Tibet senza la mascherina cinese

Sotto il «Tetto del Mondo» c’è una soffitta piena di cose interessanti da leggere. Purtroppo oggi in pochissimi salgono lassù a dare un’occhiata. Anche perché spesso, pur mossi da buone intenzioni, cioè dal desiderio di conoscere e far conoscere la letteratura tibetana contemporanea, si imbocca la strada sbagliata, e ci si accontenta del relata refero, riferendo cose riferite.

E siccome quelle cose riferite sono prevalentemente di fonte cinese, da esse del Tibet non può che uscire un’immagine deformata. Almeno dall’1 gennaio 1950, quando Radio Pechino annunciò la sua «liberazione dal giogo dell’imperialismo britannico». In altri termini, la sua invasione.

Per dirla tutta, anche senza passare da Pechino, chi cerca un confronto vis-à-vis con le lettere del «Paese delle Nevi» (altro appellativo da cartolina che gli è stato affibbiato) oggi deve partire da molto lontano. California, Tennessee, Hong Kong… Oppure scendere negli insediamenti dei rifugiati in India, dove è nata Tenzin Dickie, la quale ora vive a New York… Scrittrice e traduttrice, ha curato la prima antologia di narrativa tibetana contemporanea, uscita in inglese nel 2017 e ora proposta in Italia: Antichi demoni, nuove divinità (O barra O, pagg. 212, euro 18, traduzione di Giulia Masperi). Sono quindici storie brevi di autori tibetani, certo, ma abbondantemente occidentalizzati. Non è una diminutio, bensì una necessità: per farsi conoscere dal resto del mondo, al Tibet non basta il pur prestigioso biglietto da visita del Dalai Lama, occorre anche tradursi. Il rapporto con l’Occidente è uno dei tre temi qui trattati. Gli altri due sono gli effetti della dominazione cinese e le antiche tradizioni. Appunto, gli antichi demoni accanto alle nuove divinità.

A proposito del Dalai Lama, il sipario si alza con Le lacrime di Nyima Tsering, di Woeser. Estate 1999, il protagonista fa il bigliettaio al tempio di Tsuglagkhang a Dharamsala, in India, residenza del leader spirituale. Inviato a Oslo, dove dieci anni prima proprio Tenzin Gyatso, il XIV Dalai Lama, ricevette il Nobel per la Pace, per partecipare a una conferenza sui diritti umani, tocca con mano il disagio e le proteste dei suoi connazionali all’estero. Una donna lo scongiura di non andarsene. E lui: «Come potrei non tornare? La nostra casa è lì. Se ce ne andiamo tutti, a chi lasceremo il Tibet?».

Con il secondo racconto, L’occhiolino, di Pema Bhum, facciamo un passo indietro nel tempo. Settembre 1976, in un villaggio, a Tenpa è imposto da mesi «il cappello nero dei quattro cattivi elementi»: ha avuto la pessima idea di usare alcune pagine del Libretto Rosso per accendere il fuoco. Ma i compagni ora lo perdonano per buona condotta, e soprattutto perché ha chiamato Darmar, cioè «Bandiera rossa», il suo bambino, ancora in fasce. Il frugoletto da qualche giorno non sta bene, e non fa che piangere. Tenpa e sua moglie Lhamo sono preoccupati. Ma quando vengono spediti in un centro di rieducazione politica, devono partire. Appena giunti a destinazione, ecco la ferale notizia, data da un ufficiale: «Il nostro magnifico e senza eguali presidente Mao è deceduto oggi». Piove sul bagnato, pensa subito il povero capofamiglia. Eppure è il continuo frignare di Darmar a volgere il dramma in farsa: «Quando ho saputo che un bimbo così piccolo era talmente disperato per la morte del presidente Mao, mi sono preoccupato e dispiaciuto per lui», dice la più alta carica del Partito, il quale assegna alla coppia una dignitosa dimora e dà ordine di curare il pargoletto in ospedale. Ma non è tutto. Dalla farsa, ecco l’esito boccaccesco: prima una foto del Darmar piangente finisce sui giornali con tanto di commossa didascalia, poi, nella stanza loro riservata, papà e mamma esultano quando si accorgono che il bambino ha finalmente… fatto la cacca. «Sbavava mentre portava la spilla del presidente Mao verso quella montagnetta, balbettando gli stessi versi privi di senso: Pa, pa, pa… da, da, da. Tenpa chiuse velocemente la porta dall’interno. Lhamo tolse in fretta la spilla dalle mani di Darmar e, dopo aver preso un grande sorso di tè avanzato in una tazza, lo sputò sulla spilla. La maggior parte del tè mancò la spilla. Dove era caduta una goccia, apparve un occhio sorridente del presidente Mao. Adesso il presidente Mao sembrava avere un occhio aperto e l’altro chiuso come se stesse facendo l’occhiolino e condividesse con loro un segnale divertente e segreto».

Un’altra coppia è protagonista dell’ultimo racconto, La Valle delle Volpi Nere, di Tsering Dondrup. Le volpi nere sono un cattivo presagio, quindi meglio cambiare aria. Ma nel «Villaggio del Reinsediamento Felice» la scaramanzia è superata dalla realtà. Nonostante alcuni comfort mai visti prima, a partire dalla tazza del cesso (però senza acqua corrente…), Sangye e sua moglie Ludron, con madre e padre e nipotina al seguito, vivono da esuli in patria. E poi per riscaldarsi lì non si usa lo sterco di yak, bensì «la costosa pietra nera», cioè il carbone, con conseguenti morti per avvelenamento da monossido di carbonio. Hai voglia a invocare «la grazia dei Tre Gioielli»… Basta, torniamo a casa. Detto, fatto. E scoprono che la loro valle è stata sventrata per estrarre «la costosa pietra nera».

Il mix fra attrazione e repulsione nei confronti della cultura e degli stili di vita occidentali è ben rappresentato in Lettere d’amore di Tsering Wangmo Dhompa. Karma, bella e brava ragazza che se la cava benissimo con l’inglese, scrive (gratis) lettere per chi vuole comunicare con i lontani benefattori americani. Sua madre Tsering, casalinga disperata che si vede sfiorire, le presenta, con un pizzico d’invidia, l’amica Pema, vedova, la quale ha incontrato un tale Greg, venuto in Tibet per tre settimane di trekking e poi tornato in patria. Pema è indecisa: è soltanto un amico o un potenziale nuovo marito? Poi fa il grande passo: si trasferisce negli Stati Uniti. Con esiti non entusiasmanti. La morale la fornisce Tsering: «forse si riesce a riconoscere la felicità solo quando viene sostituita da qualcos’altro».

Ma la sintesi migliore, per quanto assai poco buddhista, fra Tibet, Cina e sogni di libertà, spetta a un amico del marito cornuto protagonista di La mancia, di Pema Bhum. Siamo a New York, per la precisione a Chinatown, in giorni che potrebbero essere i nostri. I due, con un altro sodale, bazzicano i bordelli dove lavorano ragazze orientali. Sulla patina di annoiata trasgressione si deposita una stilla di rabbiosa autocritica: «Abbiamo perso il nostro Paese a causa dei cinesi. Perfino qui, perfino in America, ci facciamo il culo per i cinesi. E i salari che guadagniamo li rispendiamo in culi cinesi. Non riusciamo proprio a stare lontano dai cinesi, non è vero?».

Di Daniele Abbiati

ilgiornale.it

24 ottobre 2020