Quella strana Cina islamica. L’inferno nei campi di concentramento dello Xinjiang

Kashgar è una cittadina dell’estremo Ovest della Cina, nella regione dello Xinjiang, che di cinese ha ben poco. Molto più vicina alle repubbliche centro asiatiche che a Pechino, sorge praticamente al centro di un’oasi nel deserto e rappresenta, da sempre, una delle spine nel fianco del governo cinese: una delle più fastidiose.

Da decenni ormai il governo del Regno del Dragone perseguita senza pietà e senza sosta la popolazione locale, gli Uiguri, colpevoli soltanto di essere mussulmani. E di non sottomettersi al controllo pervasivo che il Partito Comunista Cinese il PCC, intende esercitare senza incertezze su qualsiasi credo religioso.

L’ultima, scioccante, testimonianza su questo genocidio dimenticato è arrivata sui giornali e le televisioni di tutto il Mondo grazie alla BBC, che ha fatto circolare sul web e sulla stampa occidentali un video scioccante proveniente dalle regione cinese di confine dello Xinjiang, dove appunto vive la minoranza Uigura di religione mussulmana, perseguitata da decenni con inaudita ferocia da Pechino. In esso si vedono centinaia di prigionieri di etnia uigura tutti insieme, in ginocchio, bendati, tenuti sotto la minaccia delle armi di militari o agenti della polizia segreta cinese. Nelle sequenze successive vengono spinti su vagoni ferroviari. Immagini troppo forti per essere ignorate, immagini che richiamano alla memoria quelle delle deportazioni naziste dell’ultima guerra.

Negli Usa, l’amministrazione Trump ha deciso di estendere le limitazioni sull’export di tecnologia alle aziende cinesi accusate di aver contribuito “alle violazioni dei diritti umani e agli abusi compiuti con l’attuazione della campagna di repressione cinese, le detenzioni arbitrarie di massa e l’utilizzo di alta tecnologia di sorveglianza contro uiguri, kazaki e altri membri di gruppi minoritari musulmani”. Tra le società sanzionate spiccano i nomi di Hikvision, colosso della videosorveglianza con impianti in tutto il Mondo, compresa l’Italia, Sense Time, una delle startup più attive a livello mondiale nell’intelligenza artificiale, e Megvii, specializzata nel riconoscimento facciale.

Come ha rivelato l’autorevole quotidiano britannico, The Guardian, la polizia di frontiera cinese installa segretamente un’app negli smartphone dei turisti che entrano nello Xinjiang: il software, creato da una società cinese, permette di scaricare eventuali dati sospetti presenti nell’apparecchio, accedendo a informazioni personali.

Ma le accuse riguardano anche marchi molto popolari e noti al grande pubblico. Pochi giorni fa, infatti, un gruppo di sindacati e organizzazioni non governative ha invitato grandi marchi come Nike, Adidas, Amazon ed Apple, a smettere di acquistare merci dallo Xinjiang, mentre Il presidente della delegazione del Parlamento europeo per le relazioni con la Cina, Reinhard Bütikofer, ha denunciato la Volkswagen per il suo rifiuto di confrontarsi con la Cina sul trattamento dei musulmani uiguri, inserendo il colosso dell’auto tedesco tra le società che “beneficiano direttamente o indirettamente dell’uso di lavoratori uiguri fuori dallo Xinjiang, attraverso programmi di trasferimento del lavoro potenzialmente abusivi”. La Nike ha fatto sapere che sta indagando con i suoi fornitori in Cina “per identificare eventuali rischi legati all’impiego di uiguri o altri minoranze etniche”, assicurando comunque di non ricevere materiale direttamente dallo Xinjiang, mentre Apple ha dichiarato di aver indagato sulla questione e di non aver trovato “prove che nella nostra linea di produzione sia utilizzato lavoro forzato”.

Nei giorni scorsi un manager di una fabbrica dello Xinjiang ha rivelato al sito Bitter Winter – che denuncia le violazioni dei diritti umani nel Mondo – dettagli inquietanti sugli abusi subiti dagli uiguri, vittime di un politica spietata che Pechino cerca di far passare per un “piano di sviluppo per migliorare le condizioni di vita nella regione”. La fabbrica dà lavoro a più di mille uiguri, reclutati attraverso vari metodi di impiego coatto, mascherati da politiche di riduzione della povertà.

Nello stesso tempo il PCC, il Partito Comunista Cinese al potere da oltre 70 anni, indottrina gli uiguri in nome dell’“eliminazione dell’estremismo religioso e del separatismo”, nel tentativo di allinearne la visione del mondo a quella dell’ideologia del Partito. Gli operai e le operaie (spesso giovani donne con bambini piccoli) sono costretti a correre per un’ora ogni mattina “per sviluppare il senso della disciplina nei lavoratori”, prima di un turno di lavoro di 13 ore, che spesso termina all’1 di notte. Sono costretti tutti a vivere presso la fabbrica e raramente ottengono il permesso di tornare a casa. Qualche azienda impiega anche uiguri di 16 anni, i cui padri, nell’80% dei casi, sono detenuti in campi per la “trasformazione attraverso l’educazione”. In alcuni casi, entrambi i loro genitori sono internati in questi che non sono altro che Laogai, i famigerati “campi di rieducazione attraverso il lavoro”: i campi di concentramento cinesi che ormai l’occidente conosce bene attraverso le testimonianze scioccanti dei dissidenti che vi sono stati rinchiusi. E che sono riusciti ad uscirne vivi.

Regione Autonoma della Repubblica Popolare Cinese dal primo ottobre ’55, lo Xinjiang ha sempre nutrito aspirazioni di indipendenza da Pechino. Gli Uiguri, infatti, combattono da quel lontano ottobre per la rinascita di uno stato del Turkestan orientale, che ebbe breve vita fra le due guerre mondiali. Pechino lo sa, e non ha mai tollerato e sempre represso violentemente qualsiasi aspirazione indipendentista all’interno dei propri confini, cominciando dai tibetani. Ma sulla popolazione islamica di questa regione di confine, dove si respirano ritmi, suoni e colori più arabi che cinesi, si è da sempre accanita con particolare ferocia. La tortura dei prigionieri politici per ottenere informazioni o per costringerli a firmare confessioni è sempre stata applicata qui in modo frequente e sistematico.

Nei confronti dell’etnia Uigur poi sono stati utilizzati metodi di tortura particolarmente crudeli, non in uso nel resto della Cina come, per esempio, l’introduzione nel pene di un crine di cavallo o di un filo speciale munito di punte che rimangono chiuse quando viene inserito, ma che si estendono quando viene tirato fuori. E lo Xinjiang vanta da tempo un triste primato: la proporzione più alta di condanne a morte in relazione alla popolazione.

Il ricercatore tedesco Adrian Zenz, che per primo ha analizzato dettagliatamente il fenomeno, valuta in ben 1,5 milioni il numero di persone attualmente rinchiuse senza processo nei campi dello Xinjiang. La maggior parte appartenente all’etnia uigura, ma tra esse vi sarebbero anche detenuti di origini kazake, kirghise, uzbeke e perfino tartare. Come ha documentato di recente sempre la Bbc, anche numerose moschee nella provincia ribelle sono state rase al suolo.
Si parla di operazioni di polizia che hanno rinchiuso in appositi campi di concentramento creati dal governo cinese oltre un milione e mezzo di persone, colpevoli di essere filoturche, filoislamiche e separatiste. Moltissimi gli arresti, le detenzioni arbitrarie e le esecuzioni sommarie. Tanto che, di recente, con un’azione davvero inusuale per le diplomazie occidentali, 23 nazioni hanno firmato una lettera aperta destinata a Pechino per protestare formalmente contro la politica repressiva del governo cinese in questa regione, denunciandone le detenzioni arbitrarie e più in generale la sistematica violazione dei diritti umani. Un’iniziativa voluta dalla presidente del Consiglio Onu per i Diritti Umani Coly Seck e all’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, per “condannare fermamente la Cina per quelli che sono universalmente noti come “campi di concentramento” per musulmani costruiti nella provincia occidentale a maggioranza islamica dello Xinjiang”.

La Cina naturalmente non ha accolto inerte questa levata di scudi e – fedele alla sua posizione ufficiale che continua a negare ostinatamente qualsiasi forma di violenza o persecuzione verso le minoranze (oltre agli Uiguri, nel “mirino” di Pechino ci sono i buddisti Tibetani, i cattolici “non allineati” e gli esponenti di varie associazioni religiose come quella del Falun Gong) – ha messo subito insieme ben 35 paesi che hanno sottoscritto una contro-lettera a favore di Pechino, nella quale si sostiene che “davanti alla grave sfida del terrorismo e dell’estremismo, la Cina ha intrapreso una serie di misure antiterrorismo di deradicalizzazione nello Xinjiang, istituendo centri di formazione e di educazione”, sostenendo anche come da tre anni non ci siano più attentati e che “ora la gente prova un sentimento di felicità, pienezza e sicurezza più grande”.

Ma scorrendo l’elenco dei paesi firmatari di questa “contro-lettera pro Pechino” c’è da restare a bocca aperta. A parte la presenza – risibile a dir poco – dei maggiori regimi repressivi del Pianeta, Corea del Nord, Venezuela, Cuba, Bielorussia e Myanmar e di un paese come la Russia che certo non brilla per rispetto dei diritti delle minoranze, quello che lascia a bocca aperta è che tra i firmatari figura una lunga lista di paesi musulmani, come Pakistan, Oman, Kuwait, Qatar, Emirati arabi uniti, Bahrain e Arabia Saudita. E diversi Paesi africani che come è noto vivono sotto il ricatto economico di Pechino e dei suoi investimenti milionari, spesso camuffati da “aiuti umanitari”.

Insomma, come ha efficacemente dichiarato Alip Erkin, che dirige in Australia l’Uyghur Bullettin, “le opportunità di commercio e investimento, così come gli enormi debiti contratti con la Cina attraverso la Nuova via della seta, non solo tappano la bocca degli Stati musulmani e dell’Africa, ma li spingono addirittura a cooperare attivamente con la Cina nella persecuzione degli uiguri”.

Del resto i burocrati al potere a Pechino difficilmente molleranno questo territorio di confine, duro e inospitale ma preziosissimo, se non altro perché le sabbie dei suoi deserti sono state, dal lontano 1964 e – almeno ufficialmente – fino alla fine degli Anni Novanta, data dell’ultimo esperimento nucleare, il poligono atomico della Cina. A Lop Nor, una landa desolata a duemila chilometri da Pechino, sulla sponda orientale del deserto di Taklamakan, la sabbia radioattiva uccide ancora oggi.

Quando vi misero piede Marco Polo, il padre Niccolò e lo zio Maffio, Lop Nor era già “una grande città (…) tra levante e greco, abitata da gente che adora Malcometto (…) all’entrata di un gran deserto (..) tutto montagne e sabbioni e valli, dove non si trova nulla da mangiare”. Per questo nessuno si sorprese quando sulle dune scavate dagli archeologi, spuntarono i missili nucleari di Pechino, puntati verso ovest. Oggi a Kashgar l’enorme statua di Mao troneggia sempre al centro della piazza principale. E gli alunni delle elementari vanno ancora a scuola col fazzoletto rosso al collo. Chissà se qualcuno gli ha mai parlato di Marco Polo.

Di Marco Lupis

Huffingtonpost.it

31.07.2020