Richard Gere: pago un prezzo alla fede buddhista

17 settembre 2017

«Che l’università di Galileo, a Pisa, con il suo prestigio e la sua storia, abbia deciso di conferire al Dalai Lama una laurea honoris causa in Psicologia clinica e in scienza della salute è un momento di gioia per tutti. Per noi buddhisti che, attraverso la meditazione e lo studio, sappiamo che il buddhismo è, anche, una scienza della mente, una neuroscienza. Ma è una gioia anche per chi vede come la scienza occidentale si stia avvicinando sempre più a posizioni — la coscienza è ovunque, un po’ come la gravità — delle filosofie orientali. Scienziati, filosofi, monaci, semplici buddhisti come me: un dialogo straordinariamente interessante, che cresce».

Richard Gere non ha il tono di voce di chi si sta prendendo una rivincita — «Il buddhismo non vuole dominare, non vuole dire “ecco noi abbiamo ragione e voi torto”, è tutto il contrario, non c’è nulla in palio, c’è la gioia di diventare più saggi» — però è chiaro che il viaggio in Italia del Dalai Lama di questi giorni è un po’ più speciale degli altri.

Per la laurea pisana con due giornate di studio (mercoledì e giovedì) suddivise in tre sessioni (Scienze della Mente e Neuroscienza, Scienza della mente nella Filosofia Occidentale, Scienza della Mente nella Fisica Quantistica) e relatori importanti come Michel Bitbol, Remo Bodei, Federico Faggin, Donald Hoffman, Steven Laureys, Massimo Pregnolato, Matthieu Ricard e Giuseppe Vitiello.

Per il lancio del termine «mindscience», scienza della mente, come alternativa al termine «neuroscience», neuroscienza. Il Dalai Lama è arrivato ieri in Sicilia e proseguirà poi verso Firenze e Pisa.

«Io ho 68 anni ormai e ricordo che, da ragazzo, quando mi avvicinai al buddhismo, sentivo parlare di due professori di Harvard che indagavano sugli stati di coscienza, la natura della percezione dell’essere noi stessi. Li consideravano due hippie. Da oltre un decennio però è un tema cutting edge di assoluta avanguardia, della ricerca neuroscientifica, tanti grandi scienziati se ne occupano. Altro che hippie! (ride) Io di recente sono stato invitato a dialogare con un professore importante, Richard Davidson dell’università del Wisconsin — ha appena scritto con Daniel Goleman, l’autore di Intelligenza emotiva che è un bestseller mondiale, il saggio Altered Traits appena uscito negli Stati Uniti che consiglio a tutti — a uno dei dibattiti del centro “92nd St Y” di New York».

Cercare di unire scienza e filosofia non è facile: «No, la scienza deve poter misurare tutto con strumenti tecnici: e il cervello è così difficile da analizzare che soltanto da qualche anno ci sono strumenti davvero efficaci. Sa che a Harvard, Yale, Mit, misurano le reazioni della corteccia prefrontale delle persone che meditano? Il problema del buddhismo è che è un’esperienza prima di ogni altra cosa, e come si comunica un’esperienza simile? Non a parole, il linguaggio ha limiti strutturali: per certi versi è impossibile spiegare cos’è il buddhismo. Forse con la poesia. Anche per questo è infinitamente affascinante».

L’impatto del buddhismo, dello studio, della meditazione sulla vita di Gere è «letteralmente impossibile da descrivere. Ho superato il modo di pensare dualistico occidentale, ho visto che ogni cosa non è separata ma è parte di un tutto, ho percepito la possibilità di trovare una via che liberi dalla sofferenza. Buddha insegna che tutto è relativo: 2500 anni prima che ci arrivasse anche la scienza con Einstein».

Quali sono i limiti di questo dialogo? «Mappare il punto del cervello dove alberga la compassione? Ma cos’è la compassione? Si può imparare? Davidson pensa di sì. È un cammino lungo, ma ci siamo abituati. Pensi al cammino del Tibet». Negli anni ‘90 una qualche forma di autonomia da Pechino se non di indipendenza sembrava a portata di mano, ora molto meno. Sono i limiti della nonviolenza? «Oh, la violenza nel breve termine funziona, niente da dire. Genera odio, terrore, altra violenza, al punto che non solo non funziona più ma peggiora tutto. Ecco, vede, il Dalai Lama ama tutti, ama anche i cinesi, proprio tutti, anche quelli che lo odiano. Non può non avere successo, la filosofia di un uomo come lui. C’era molto entusiasmo anni fa, ora c’è molta tristezza. Io dico che non è cambiato niente: il Tibet sarà autonomo, nel giro di una generazione la situazione attuale sarà finita. È una trasformazione radicale, richiede tempo, ma non si ferma».

Ottimismo buddhista? «No, realismo. Pensi a Liu Xiaobo, un eroe, morto in carcere per la libertà di parola. Le pare una prova di forza? È stata una prova di debolezza. Pechino spende, in sorveglianza, più di quanto spenda per le forze armate. Sostenibile? No. Finirà».

Gere è diventato un attore più bravo, ed è rimasto miracolosamente bello, ma si vede molto meno, al cinema, in questi anni. A Hollywood il potere delle aziende cinesi è sempre più grande, dalla proprietà della sale statunitensi al peso del mercato di Pechino. «L’influenza cinese a Hollywood è un fatto. Mi rende felice? No. C’è una linea, per terra, tracciata con chiarezza: oltre non si va, o si pagano le conseguenze. Io le ho pagate, le pago, le pagherò: è così. Almeno ho un nome, una filmografia, costruiti in un’industria del cinema diversa da quella di oggi. Oggi faccio i film che mi interessano. I kolossal? Non mi interessano. Anche se me li lasciassero fare».

Di Matteo Persivale

Corriere.it

17 settembre 2017