E’ morto Liu Xiaobo premio Nobel per la Pace

13 luglio 2017
Se n’è andato nel modo peggiore: prigioniero fino all’ultimo. Liu Xiaobo, il premio Nobel per la pace condannato a 11 anni per ‘incitamento al sovvertimento dello stato’, era stato trasferito dal carcere all’ospedale di Shenyang, ma la libertà concessa il 26 giugno scorso perché malato di tumore terminale era condizionale solo a parole.

Dice un comunicato dell’ospedale che nelle ultime ore i medici hanno proposto l’intubazione per provare a mantenerlo in vita, e che la famiglia avrebbe rifiutato. Anche qui, nei giorni scorsi la stessa famiglia ha messo in guardia dal prendere per vere tutte le dichiarazioni uscite dall’ospedale: e sapremo mai com’è andata davvero?
Sul corpo dell’eroe di Tiananmen s’è consumato fino all’ultimo l’ennesimo balletto: di lì l’Occidente a chiedere, flebilmente, la sua liberazione, di qua la Cina a ribadire, fermamente, il no al suo trasferimento all’estero. Fino all’ultimo, con quel poco di forza che gli restava, è stato lo stesso Liu a chiederlo: lasciatemi andare a curare in Germania o negli Usa. Una preghiera sussurrata ai medici americani e tedeschi che Pechino ha fatto avvicinare al suo capezzale, dopo che giorni prima aveva assicurato che “i migliori specialisti cinesi” si stavano interessando del suo caso. Ma anche qui, l’ultimo scontro: i medici occidentali a dire che, “malgrado qualche rischio”, poteva partire per cercare cure migliori, e i cinesi che continuavano a ripetere che invece ormai non c’era più niente da fare.

La cancelliera tedesca Angela Merkel ha chiesto a Pechino di usare ‘compassione’. Il Dipartimento di Stato ha detto che gli Usa erano pronti a riceverlo. La Ue ha invitato la Cina a liberare lui e la moglie. Ma non c’è stata quella mobilitazione “che in altri tempi era servita a liberare altri dissidenti”, ha detto a Repubblica Perry Link, il prof americano che ha tradotto le sue opere. “Pechino l’ha spedito in clinica solo per non vederselo morire in carcere mentre l’Occidente guardava dall’altra parte: troppi interessi ormai in gioco con la Cina”.

Liu Xiaobo era nato a Changchun, nel nord della Cina, il 28 dicembre 1955, ma l’infanzia l’aveva spesa nella Mongolia interna, la sua famiglia spedita in una comune dalla Rivoluzione Culturale di Mao Zedong. Quando alla morte del Grande Timoniere finalmente riaprono le scuole piombate nel caos, prima si laurea all’università di Jilin e poi si specializza alla Normale di Pechino, con un master su ‘Estetica e libertà dell’uomo’, che già dice tutto. Una carriera velocissima lo porta a studiare prima in Europa e quindi negli Stati Uniti. Ed è proprio negli Usa che si decide la sua vita, e la sua morte. È l’aprile del 1989 quando abbandona New York, dove lavora alla Columbia University, per diventare protagonista della primavera cinese. Tiananmen cambia tutto, il professore scende in piazza con i suoi studenti, è uno dei ‘Quattro gentleman’ che organizzano lo sciopero della fame e aprono la trattativa con i militari che stanno già invadendo la piazza di carri armati. Dopo il massacro entra ed esce di prigione, si fa anche tre anni di lavori forzati dove l’unica gioia è quella matta di Liu Xia, la poetessa conosciuta quando era ancora un giovane docente, che proprio allora confessa di voler sposare “quel nemico dello Stato”.
Nel 1999 “torna dal campo di rieducazione, e non rieducato” come scrive proprio Perry Link nella prefazione a No Enemy, No Heatred, una sua raccolta di scritti. Crede ancora che il cambiamento sia possibile. La speranza stavolta si chiama Internet, sono gli anni Duemila e l’indomito prof ora intravede la possibilità di ‘libera assemblea nel cyberspazio’, trovando ovviamente il modo di scavalcare tecnicamente la Grande Muraglia Web del regime: è il primo a parlare qui in Cina del “potere della pubblica opinione su Internet”.

L’ultima battaglia è quella che gli costerà la condanna più dura, la fondazione di Charta 2008, il manifesto firmato da 303 attivisti che chiede la fine del partito unico e il rispetto per i diritti umani, e sarà sottoscritto da oltre 12mila persone: un’enormità nella Cina dove paghi per provare a dire solo ‘boh’. “Nonostante il suo arresto – scriverà Václav Havel, l’altro Nobel che fu premiato in carcere, e la cui Charta 77 aveva ispirato i ribelli cinese-, le sue idee non potranno essere arrestate”. “Non ho nemici, non provo odio” dirà Liu nella dichiarazione che alla premiazione di Oslo leggerà Liv Ulmann davanti alla sua sedia vuota come la speranza che ha coltivato fino all’ultimo, prigioniero fino all’ultimo.

Angelo Aquaro
Repubblica.it
13 luglio 2017