“One Belt one Road”: i problemi nelle relazioni internazionali della Nuova Via della Seta

Cina one belt one road18 maggio 2017 (AsiaNews). Si è appena concluso a Pechino il vertice diplomatico del forum “One belt one road (Obor)” a cui hanno partecipato i rappresentanti dei Paesi del pianeta coinvolti nell’ambizioso, strategico, faraonico piano di cooperazione internazionale varato dal governo cinese nel 2015.
Il progetto, concretizzatosi tre anni orsono sotto la presidenza del governo di Xi Jinping, ha l’intenzione di far rivivere i fasti dell’antica “Via della Seta” dell’Impero cinese, mirando alla creazione, da qui al 2050, di un enorme network delle vie di trasporto in grado di creare una rete fittissima ed articolata di infrastrutture, ferrovie, strade e linee marittime – la Silk Road Economic Belt e la Silk Maritime Road – gasdotti ed oledotti che mettano in comunicazione la Cina e l’Estremo Oriente con l’intera Asia, l’Europa ed il Mediterraneo.
L’impegno economico previsto è enorme, ma Pechino ritiene di essere in grado di garantire la copertura economico finanziaria a questo ciclopico progetto geopolitico, attraverso la leadership della joint-venture creditizia avviata con la creazione della Banca Asiatica d’investimento per le infrastrutture (Aiib).
La posta in gioco è altissima, perché attraverso questo colossale sforzo economico finanziario la Cina si candida a ridefinire l’intero assetto geopolitico internazionale, divenendo il baricentro economico e politico di una asse del commercio e dell’industria euroasiatico in grado potenzialmente di scardinare l’attuale sistema degli accordi e trattati internazionali.
Sotto il profilo della politica estera di sicurezza e difesa, la crescente imponente influenza cinese nel quadro internazionale preoccupa altri importanti attori del quadro politico internazionale, per i dubbi che l’azione cinese pone circa la creazione di un ipotetico “Nuovo Ordine Mondiale”.
E’ pacifico che la politica estera di ogni Stato, ed in particolare di ogni potenza regionale o internazionale rappresenta la proiezione dell’interesse nazionale di quel Paese, e la Cina non sfugge a questa regola aurea.
La strategia geopolitica sottesa tra le maglie dell’ambizioso programma Obor dovrebbe permettere al governo di Pechino  di dare sfogo nelle esportazioni alle enormi capacità produttive in surplus  dei settori dell’industria pesante nazionale, che più di altri settori subisce il rallentamento dello sviluppo economico del Paese dopo il boom degli anni felici della crescita del Pil a due cifre; di inserirsi stabilmente nei processi politici decisionali delle economie dei Paesi del Sud-Est asiatico, dell’Asia centrale, del Medio Oriente e della stessa Europa; di rafforzare la propria posizione dominante rispetto alle potenze concorrenti, come l’India, la Russia, gli USA.
Sotto questo profilo i fronti “caldi” che si aprono con il programma Obor sono molteplici, e di rilievo internazionale.
L’India ha molteplici motivi per temere la capacità espansiva del sistema-Cina: tra i progetti già avviati entro la Silk Road figura il corridoio economico tra Cina e Pakistan (Cpec) che congiungerà  i due Paesi da Kashi al porto di Gwadar, assicurando alla Cina un accesso diretto sul mar Arabico. Gwadar è al contempo un’importante base navale pakistana e l’India teme concretamente che la Cina possa installare in accordo con il Pakistan stazioni permanenti di controllo sull’attività della marina indiana, rafforzando il suo ruolo militare nel Sud dell’Asia, nel solco dell’obiettivo primario di Pechino di avere un monopolio di  controllo delle vie di comunicazione marittime e di contenere l’influenza indiana nel Pacifico.
Sempre Delhi  ha già manifestato tutta la sua contrarietà al transito del corridoio di trasporto sino-pakistano per il territorio del Kashmir, da decenni oggetto di aspra contesa militare tra i governi indiano e pakistano, i cui rapporti ora sono ulteriormente esacerbati.
Peraltro la questione del porto di Gwadar si inserisce nel più ampio fronte del controllo dei mari asiatici, che  è un altro importantissimo motivo di potenziale destabilizzazione dell’intera area paventato dagli analisti, specie gli Usa. Le rotte marittime commerciali da e per la Cina sono un punto fermo geopolitico della cosiddetta strategia cinese del “ filo di perle (String of Pearls)”  basata sulla creazione di basi strategiche  nell’Oceano indiano – dal Medio Oriente alla Cina meridionale – con lo scopo di proteggere i propri interessi di sicurezza militare ed economica. Lo scorso anno la Cina ha condannato – e non riconosciuto –  la sentenza della Corte di arbitrato ONU sul diritto del mare che nega a Pechino ogni titolo di sovranità su circa il 90 % del Mar Cinese Meridionale, contesi con Filippine, Malaysia e Vietnam. La Cina ad oggi occupa militarmente alcuni arcipelaghi della zona, al fine di operare un pieno controllo di un’area in cui transitano milioni di dollari di merci in nome dell’interesse nazionale cinese, e ciò ha rafforzato la permanente presenza della flotta militare Usa già voluta dal Presidente Obama.
La piena realizzazione del progetto Obor sotto il profilo del controllo delle vie marittime potrebbe permettere così a Pechino di risolvere il problema dello Stretto di Malacca, controllato dagli Usa, da cui transita il 75% delle materie prime petrolifere importate e su cui non vanta alcun potere sovrano.
Connesso allo sviluppo del corridoio economico tra Cina e Pakistan è il coinvolgimento dell’Iran, attraverso la prevista creazione di un sistema ferroviario di alta tecnologia,  di cui Teheran è sprovvista, in grado di congiungere il Golfo Persico all’Europa ed alla Cina. La cooperazione economico-militare tra i due Paesi, laddove fosse implementata ulteriormente attraverso gli accordi Obor riporterebbe però inevitabilmente all’orizzonte il confronto militare per il controllo del Golfo Persico e di Aden, di fronte a Gibuti, dove gli Usa hanno una delle basi militari strategiche più importanti, Camp Lemonnier, di supporto allo storico nemico di Teheran, l’Arabia Saudita.
L’intensificazione dei rapporti della Cina con i Paesi dell’Asia centrale attraverso il programma Obor solleva il velo su un altro fronte assai delicato, quello con la Russia.
Il governo di Mosca da sempre considera quest’area di propria influenza, e guarda con molta cautela alle joint-ventures sviluppate con i governi del Kazakistan e Kyrgyizstan, nonostante i formali ottimi rapporti tra Mosca e Pechino, nel timore di perdere la partnership privilegiata sulle ex Repubbliche islamiche dell’Unione Sovietica. Un nervo scoperto  in particolare è dato dalla questione delle minoranze uigure musulmane che risiedono nella Cina nord-occidentale – lo Xinijiang –  di gruppo etnico turcofono, che da tempo lottano per ottenere l’indipendenza da Pechino.
La minoranza uigura ha goduto per anni di appoggio da parte dei governi turco, afghano, pakistano, ma la Cina nell’ambito del progetto Obor ha già espressamente dichiarato di escludere qualsiasi forma di partnership economica regionale nella Silk Road con governi che sostengano le istanze uigure, e ciò in nome del primato dell’interesse nazionale.
Per quanto concerne i rapporti con i Paesi dell’Asia centrale è opportuno inoltre sottolineare – dai papers dei programmi presentati – come il governo di Pechino dimostri indifferenza alle specifiche esigenze delle realtà locali dei paesi coinvolti nel piano Obor, con i quali mira al mantenimento di un rapporto compratore-produttore di materie prime, in cui il secondo si trova in una posizione di svantaggio in termini di benefici: l’impegno cinese nella costruzione di infrastrutture in questi Paesi è infatti affidato in esclusiva a imprese di Stato di Pechino, ed appare ragionevole dubitare in una ricaduta di benefici nel medio-lungo termine per le istituzioni e le società civili di questi Stati.
Questo atteggiamento della pragmatica politica cinese nello sviluppo del piano geopolitico Obor si scontra invece con l’impianto normativo occidentale, ed europeo in particolare, che è saldamente ancorato ai principi della carta delle Nazioni Unite, ovvero una cooperazione basata sul rispetto dei Cinque Principi di Coesistenza Pacifica, come l’integrità territoriale e la non-interferenza nei processi decisionali politici dei Paesi, la valorizzazione della rule of law e dei diritti umani nella corporate responsibility.
Le riserve dei Paesi UE in relazione agli accordi Obor sono molteplici – nonostante il formale plauso al programma –  e ruotano attorno alla oggettiva distanza del sistema politico legislativo cinese dai principi e normative dei valori comunitari in relazione ai diritti dei lavoratori, trasparenza nei contratti d’appalto, divieto della concorrenza sleale, contrasto alla contraffazione, divieto di monopolio e di aiuti di Stato.
Si consideri che ad oggi, con disinvolto pragmatismo la Cina continua ad imporre un regime di autorizzazione preventiva per tutti gli investimenti stranieri in qualsiasi settore economico si intenda svolgere in territorio cinese: un’evidente forma di discriminazione nel libero mercato frutto della rigidissima concezione verticista dell’interesse nazionale che il Partito Comunista cinese pratica sia a livello politico che economico e di sicurezza.
Alla luce della rete di accordi sulla Nuova Via della Seta, il quadro estremamente complesso dello scenario geopolitico che si delinea presenta dunque luci ed ombre in pari misura: l’impegno proclamato dai vertici politici di Pechino per assumere la leadership di un cammino di sviluppo sostenibile e rispettoso delle società civili si scontra con la necessità di saper declinare l’impegno economico in una serie di variegati contesti regionali, ove le identità culturali, le istanze valoriali, i principii giuridico-legislativi ed  i deficit politico istituzionali di una buona governance sui diritti umani difficilmente possono essere bypassati in nome del pragmatismo dell’interesse economico tipico della strategia cinese.
Certamente l’impegno assunto può rappresentare un’efficace leva per la crescita e distribuzione della ricchezza a livello mondiale, ma la rigida concezione dell’interesse nazionale del Partito Comunista cinese che si coglie tra le righe degli infiniti documenti del progetto Obor  –  sovente assai vaghi e privi di riscontri effettivi sullo stato dell’arte dei progetti in cantiere – lasciano intendere che la Cina non sia propriamente un filantropo benefattore internazionale, mentre gli scenari geopolitici internazionali appaiono assai più complessi per essere risolti tramite un approccio così monolitico e unilaterale.
Di Luca Galantini
AsiaNews – 17 maggio 2017