DISCORSO DEL KASHAG NEL 24° ANNIVERSARIO DEL CONFERIMENTO DEL PREMIO NOBEL PER LA PACE

A SUA SANTITA’ IL DALAI LAMA DEL TIBET

A nome dei sei milioni di tibetani,  il Kashag rende onore e porge il suo umile rispetto a Sua Santità il Gande XIV Dalai Lama del Tibet nella speciale occasione del 24° anniversario del conferimento alla Sua Persona del Premio Nobel per la Pace.

Il Kashag rivolge inoltre i suoi i suoi più ferventi auguri ai compatrioti tibetani, agli amici e ai sostenitori in tutto il mondo.

Nel 1989, in questo stesso giorno, fu conferito il Premio Nobel per la Pace a Sua Santità il Dalai Lama per il suo costante rifiuto dell’uso della violenza nella lotta per il riconoscimento delle libertà fondamentali del suo popolo. L’assegnazione del Nobel per la Pace a Sua Santità il Dalai Lama diede un’improvvisa, maggiore visibilità alla lotta dei tibetani. L’importanza mondiale della figura di Sua Santità influì direttamente e in modo positivo sull’immagine del popolo tibetano e ne rafforzò alla base la causa. Il Tibet divenne sinonimo di non-violenza e giustizia.

Oggi celebriamo inoltre la Giornata Internazionale dei Diritti Umani per ricordare la proclamazione e l’adozione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani che nel 1948 le Nazioni Unite vollero adottare a riconoscimento del comune grado di libertà di cui ogni popolo e nazione dovrebbe godere.

Purtroppo, a distanza di 65 anni dalla proclamazione e alla luce del deterioramento della situazione dei diritti umani in Tibet, i tibetani non hanno molto da celebrare.

La Cina, in aperta violazione di quanto stabilito nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, continua a negarne il principio di universalità. Il Tibet è ancora sotto occupazione. Continua a soffrire la repressione politica, la marginalizzazione economica, la distruzione ambientale e l’assimilazione culturale. Ancora peggiore è la migrazione massiccia dei cinesi in Tibet che ha reso i tibetani cittadini di seconda classe all’interno della loro stessa terra.

Vivendo in un simile contesto di repressione, senza possibilità di ricorrere ad alcun mezzo convenzionale di protesta, i tibetani di ogni estrazione sociale sono costretti ad esprimere la loro indignazione e la loro frustrazione con atti estremi. Proprio una settimana fa, Kunchok Tsetan, un tibetano di soli 30 anni, si è auto-immolato ed è morto. Nonostante i nostri ripetuti appelli a non sacrificare le loro vite, dal 2009 si sono suto-immolati in Tibet 123 tibetani. 123 non è solo un numero o un insieme di numeri: sono esseri umani proprio come noi, persone che, se la Cina desse loro la scelta, vorrebbero vivere un’intera vita. La Cina non può negare le evidenti violazioni dei diritti umani che sono la causa delle auto-immolazioni.

Recentemente a Driru, nella Contea di Nagchu, i tibetani si sono rifiutati di esporre la bandiera cinese. La polizia ha aperto il fuoco e quattro di loro sono stati uccisi. Molti altri sono stati arrestati. In tutta l’area la situazione resta tesa.

Anziché vedere nel Dalai Lama la soluzione del problema, la Cina lo ha etichettato con l’appellativo di nemico. Chen Quanguo, Segretario del Partito nella cosiddetta Regione Autonoma Tibetana (TAR), ha minacciato di mettere sotto silenzio la voce del Dalai Lama e di impedire ai tibetani di ascoltare il suo messaggio. Allo stesso modo, la Cina ha messo sotto silenzio la voce del suo stesso Premio Nobel per la Pace, Liu Xiaobo, attualmente in carcere.

Il deterioramento della situazione dei diritti umani all’interno del Tibet è oggetto di critiche e aspri rimproveri nei rapporti stilati dal Dipartimento di Stato USA sui Diritti Umani, da Amnesty International e da Human Rights Watch. Nel suo rapporto 2013 sulla Pace nel Mondo, la Freedom House ha classificato il Tibet tra “il peggio del peggio” per quanto concerne i diritti umani e la libertà.

Nel corso della recente Universal Periodic Review del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite sulla posizione della Cina, 12 nazioni, compresi il Giappone, l’Australia, la Groenlandia e il Canada, hanno espresso la loro preoccupazione per le violazioni dei diritti umani operate dalla Cina. Tra le altre questioni affrontate, la Nuova Zelanda ha chiesto alla Cina di riprendere il dialogo bilaterale per la soluzione del problema del Tibet.

L’Amministrazione Centrale Tibetana riafferma il suo impegno all’Approccio della Via di Mezzo e ribadisce che il dialogo è la sola e più realistica opzione per trovare una soluzione di reciproco vantaggio alla questione del Tibet. L’Approccio della Via di Mezzo non chiede la separazione dalla Repubblica Popolare Cinese né “un alto grado di autonomia” ma una Genuina Autonomia per tutto il popolo tibetano sotto una sola amministrazione. Questa soluzione è in sintonia sia con la Legge sull’Autonomia Regionale sia con la Costituzione della Repubblica Popolare.

L’Amministrazione Centrale Tibetana non fa uso del termine “Grande Tibet”. Le tre province tradizionale dell’U-Tsang, del Kham e dell’Amdo sono sempre state parti essenziali del Tibet che si estende sull’intero altopiano tibetano. Hanno in comune non solo la stessa geografia e la stessa topografia ma anche la cultura, la lingua e la religione. La divisione del Tibet in distinte province cinesi è una evidente violazione della legge e dell’articolo 4 della Costituzione che riconosce il diritto delle minoranze etniche all’autonomia regionale “nelle aree in cui tali comunità vivono” e il diritto di costituire organismi di autogoverno per esercitare il potere di autonomia”. Il 99% degli Uiguri vivono nella Regione Autonoma dello Xinjiang e il 95% degli Zhuang vivono nella Regione Autonoma dello Zhuang Guangxi. I tibetani che fanno parte della stessa comunità sono invece divisi in differenti province: meno del 50% risiedono nella Regione Autonoma e il resto della popolazione, la maggioranza, è stata incorporata nelle adiacenti province cinesi denominate “prefetture autonome tibetane” e “contee”.

Il fatto che il territorio del Tibet costituisce un quarto di quello cinese non è frutto di una recente invenzione politica ma è la naturale conseguenza di migliaia di anni di vita dei tibetani sull’altopiano del Tibet. E questo fatto non deve turbare la Cina dal momento che un quinto del suo territorio è ormai costituito dalla Regione Autonoma dello Xinjiang Uiguro e un ottavo dalla Regione Autonoma della Mongolia Interna. Inoltre, una Genuina Autonomia per tutti i tibetani non è soltanto una peculiarità geografica ma anche una specificità amministrativa che, nelle aree in cui sarà dato ai tibetani il potere di gestire i propri interessi, mira alla reale applicazione della legge cinese.

Se tutti i tibetani con la stessa tradizione, economia e geografia saranno riuniti in una sola unità amministrativa anziché divisi tra la TAR e le quattro province a maggioranza cinese – come il Qinghai, il Sichuan, il Gansu e lo Yunnan – il governo sarà più efficiente ed efficace. Nel Memorandum sulla Genuina Autonomia per il Popolo Tibetano si è detto chiaramente  che non è nostra intenzione espellere “tutti i cinesi” dalle aree tibetane, come supposto dalle autorità di Pechino. Ma le aree tibetane devono essere abitate da una maggioranza tibetana al fine di preservare e promuovere la peculiare identità del Tibet.

Per le suddette ragioni, la moderazione e il pragmatismo dell’Approccio delle Via di Mezzo hanno trovato sostegno e riconoscimento tra intellettuali, parlamentari, leader e singoli individui, compresi studiosi, scrittori e buddisti cinesi. Dal 2011, oltre sei diversi paesi hanno presentato risoluzioni e mozioni a supporto della ripresa del dialogo tra gli inviati di Sua Santità il Dalai Lama e la nuova dirigenza cinese. Più di sedici Ministri degli Esteri, portavoce e singoli parlamentari hanno chiesto alla Cina di risolvere la questione tibetana.

In questa ricorrenza, il Kashag vuole ringraziare tutti per il sostegno alla nostra causa.

Cogliamo questa occasione per ringraziare soprattutto il Governo e il popolo dell’India per la generosità e l’ospitalità concessaci in tutti questi anni. Queste parole di ringraziamento non sono sufficienti ad esprimere i nostri sentimenti più profondi e la gratitudine per la generosità della nazione indiana.

Ringraziamo inoltre i Gruppi di Sostegno al Tibet e quanti in tutto il mondo ci supportano singolarmente per l’incessante e volontario appoggio a tutti i nostri sforzi.

Nel suo discorso di accettazione del Premio Nobel per la Pace, Sua Santità il Dalai Lama disse: “Questo premio rafforza la nostra convinzione nel fatto che se ci batteremo con le armi della convinzione, della verità, del coraggio e della determinazione, il Tibet sarà liberato”. Inoltre, il 22 settembre 2013, Sua Santità il Dalai Lama ha rassicurato tutti i tibetani asserendo con fermezza che vivrà a lungo e vedrà il giorno in cui la questione del Tibet troverà una soluzione grazie all’Approccio della Via di Mezzo.

Dobbiamo restare uniti e dedicarci alla realizzazione delle fauste parole di Sua Santità il Dalai Lama. La causa del Tibet e la sua battaglia per i diritti umani trionferanno. La forza e la perseveranza del popolo tibetano non verranno mai meno. La non-violenza e la pace sono un’aspirazione di tutta l’umanità, non solo nostra. Il successo della lotta tibetana sarà il successo della pace e della non-violenza.

Cari fratelli e sorelle in Tibet, nonostante la vostra sofferenza sia insopportabile e sembri senza fine, la sola certezza che la vita ci offre è il cambiamento. Le cose non sono immutabili nel tempo. Anche se ora siamo separati dalla forza della politica, non cesseremo mai di adoperarci per essere riuniti sotto le stesse libertà fondamentali e con Sua Santità il Dalai Lama di nuovo in Tibet.

Infine, il Kashag e i tibetani, ovunque si trovano, augurano al Dalai Lama di continuare ad essere in buona salute. Possano tutti i suoi desideri essere realizzati.

Grazie!

Il Kashag

10 dicembre 2013