Se sulla Cina soffia il vento del Maghreb… «Pechino teme il contagio»

di Valter Delle Donne
Intervista con l’ex presidente dell’associazione Italia-Tibet:

Alla vigilia dell’anniversario della rivolta del 10 marzo 1959 le autorità di Pechino hanno sospeso tutti i viaggi turistici in Tibet chiudendo, di fatto, la regione agli stranieri. Ufficialmente la sospensione è stata giustificata «soprattutto a causa del freddo invernale, la limitata offerta di alloggio e preoccupazioni per la sicurezza». Una versione ufficiale a cui non crede ovviamente Pietro Verni, già presidente dell’Associazione Italia -Tibet, tra i massimi esperti italiani di civiltà orientali nonché autore dell’unica biografia italiana autorizzata del Dalai Lama. Verni non è molto sorpreso dall’ennesimo giro di vite di queste ore del regime nei confronti della popolazione locale.

La sospensione dell’accesso ai turisti era prevedibile?

Non è una misura che prendono ogni anno in occasione della ricorrenza del 10 marzo, ma quest’anno era pressoché scontata. Ritengo che sia dipesa più che altro da quanto sta accadendo in Medio Oriente.

Il vento delle rivoluzioni del Maghreb potrebbe arrivare fin sull’Himalaya?

 

Non lo escludo perché i timori dei governanti cinesi sono fortissimi.
E se si preoccupano loro vuol dire che gli elementi di apprensione ci sono.

 

Da che cosa si intuisce oltre che per la sospensione dell’accesso inTibet ai turisti?

Le faccio un esempio minimo. Mi ha colpito la censura formidabile che è stata attuata sul web per la protesta chiamata dei “gelsomini”. Da qualche tempo è impossibile per un internauta cinese trovare risultati che corrispondano a questa parola.

Se perfino il nome di un fiore è diventato eversivo significa che la Rete è uno strumento sempre più pericoloso per il regime?

Facciamo un distinguo, non vorrei sopravvalutare l’efficacia di Internet sulle proteste di piazza che ci sono state in Medio Oriente. Di certo non sottovalutano la Rete a Pechino: provi a cercare l’associazione Italia-Tibet da un pc in Cina. Non le sarà possibile trovare il link.

In questo contesto che speranze ci sono per il popolo tibetano di trovare qualche barlume di autonomia?

Penso che uno dei grandi errori sia quello di attendersi aperture dal regime. La posizione di Pechino è sempre stata quella di negare l’esistenza di una questione Tibet.

E attendersi una moral suasion dalle democrazie occidentali?

Per carità. Prendiamo il caso di Gheddafi. Per anni è stato servito e riverito dalle democrazie occidentali. Ricordiamo che all’Onu la Libia ha avuto anche un posto di rilievo nella commissione per i diritti umani. Inutile aspettarsi un intervento efficace.

Però ora contro il leader libico viene preannunciato un intervento del tribunale penale internazionale dell’Aja…

Chissà quanto bisognerà aspettare prima che vengano adottati provvedimenti anche contro i governanti cinesi che hanno torturato e massacrato la popolazione tibetana.

E l’eventualità di un dialogo tra il governo tibetano in esilio e Pechino?

Un sogno nel quale ci si culla da anni, che si è trasformato in un incubo. Come si possono pretendere spazi di libertà e di democrazia che non vengono concessi nemmeno ai cinesi?

Quindi vale anche per i monaci tibetani il proverbio occidentale «Aiutati che il ciel t’aiuta?»

Mi sembra indubbio che il problema dei tibetani, come quello di un’altra popolazione che subisce la repressione di Pechino come gli uiguri, non si risolverebbe neppure con una sollevazione violenta in stile ceceno. Semmai, c’è da sperare che il cambiamento coinvolga il maggior numero di forze possibili in tutta la Cina.

Insomma, la libertà per il popolo tibetano può arrivare da Pechino?

Di certo una protesta dalla capitale si potrebbe riverberare ovunque. La zeppa che faccia saltare l’ingranaggio della macchina governativa può essere messa solo dall’interno. Di questo sono convinti per i primi i burocrati cinesi, che non sono certo degli sprovveduti.

Tuttavia della protesta di piazza Tienanmen sappiamo tutti come è finita…

È vero, ma l’insoddisfazione è sempre più crescente. Non sto pensando a una protesta coordinata, ma più che altro al numero di forze e di individui insofferenti nei confronti del regime. Anche per avere una valanga bisogna cominciare con un solo fiocco di neve. E qui di fiocchi di neve della protesta ce ne sono tanti. Non solo le popolazioni himalayane, ma cito anche l’esempio della chiesa di Falun Gong, come pure le dicevo gli uiguri.

Un po’ come è accaduto in Tunisia, Egitto e Libia?

Esattamente. Ecco perché ritengo possibile che il vento del Maghreb possa arrivare fino in Tibet.

 

Valter Delle Donne
(Il Secolo d’Italia, 09/03/2011)